Feelin' insane

24 Dicembre / Axel

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    Freya Estrid Riis | V | Serpeverde


    Senza-titolo-15
    Era iniziata come una serata come tante, uno dei classici eventi formali tipici della scuola a cui, ormai, tutti si erano abituati. Si era poi trasformata in una serata giocosa, certo inconsueta vista la serietà con cui la maggior parte dei professori portava avanti la vita scolastica, apprezzabile che, per una sera, avessero deciso di cambiare le cose, alleggerendo il peso di compiti, relazioni ed esami che pesavano sulle spalle di quei ragazzi che annaspavano giornalmente tra gli impegni scolastici e il poco tempo libero disponibile. Il tintinnio delle posate, il fragore delle risate e il chiacchiericcio generale si erano fusi creando la giusta atmosfera per una serata di festa come sarebbe dovuta essere quella della vigilia di Natale ma, ancora una volta, tutto era cambiato. Un gelo bruciante si era propagato per la Sala Grande, aggrappandosi alle viscere di tutti i presenti, persino dei più coraggiosi, quando il corpo della professoressa di Divinazione, che doveva solo far parte di una scenografia inventata, venne scoperto davvero privo di quella linfa vitale che solo fino a pochi minuti prima scorreva in lei. Un omicidio era stato compiuto ad Hogwarts, davanti agli occhi ignari ed ingenui degli studenti le cui voci si erano ormai spente, lasciando il posto al cupo silenzio causato dallo sgomento e dalla confusione generale. Li, in piedi davanti ai più, lo sguardo di Freya rimaneva fisso sul cadavere dell'insegnante, incapace di discernere la realtà da un oscuro incubo. L'angoscia l'avvolse come un mantello pesante, stringendole lo stomaco con dita impalpabili intanto che la tensione aumentava tra i presenti nella sala, arrivando quasi a poterla tagliare con un coltello. Cosa stava succedendo? Non era stata lei, fu tutto quello che riuscì a dire al ragazzo che le si era avvicinato. Faticava a parlare, sentiva il nodo alla gola stringersi sempre di più. Ora, il gioco che la vedeva colpevole e vincitrice non sembrava altro che una sciocca burla, la beffa con cui il reale omicida si stava prendendo gioco di loro. Quanto ci avrebbero messo i primi sospetti a farsi strada tra i cuori impauriti dei ragazzi? Quando avrebbero cominciato a sollevare le loro dita giudicanti, pronti a puntarle contro i loro sospetti proprio come avevano fatto, giocando, poco prima? Solo una cosa era certa: l'idea che Hogwarts fosse un posto sicuro era, oramai, solo un'illusione.
    Voleva andarsene. Allontanarsi in fretta da quella situazione. Il nervosismo provato fino a poco prima, quello che la faceva scattare per ogni minima cosa, in quel momento sembrava nulla in confronto a ciò che provava. Si sentiva esposta, vulnerabile, fino a quando non avessero scoperto il motivo che aveva mosso qualcuno a far fuori un'insegnante, non si sarebbe sentita al sicuro. Poteva essere personale come no, poteva essere una vittima casuale o la prima di tante, il mondo magico non era certo nuovo a genocidi in nome di qualche strano ideale e, il seme della paranoia che da giorni cresceva dentro di lei, le faceva immaginare gli scenari più impensabili che potessero vederla coinvolta. Tutti sapevano che la Lovecraft era una veggente, niente le vietava di supporre che qualcuno si fosse messo in testa di fare fuori i diversi. Quasi le avesse letto nel pensiero, la presa sicura di Axel la fece sobbalzare, frenando il suo treno di pensieri e facendola voltare verso di lui “Andiamo” se in un altro contesto lo avrebbe guardarlo piccata per quell'imposizione, in quel momento la forza rassicurante del suo tocco le suggeriva un'urgenza che non poteva essere ignorata. Quella presa salda sul polso non solo le dava un senso di sicurezza, ma le faceva anche da da bussola in quel labirinto di ansia e confusione che non si decideva a farla tornare in sé. Camminava dietro di lui, concentrandosi su quella connessione come ad un ancoraggio nel caos crescente, cercando di tenere il passo lungo quei corridoi interminabili e all'apparenza deserti in cui le fiaccole, che di norma si limitavano ad indicare la via, in quel momento sembravano gettare ombre sinistre attorno a loro che impedivano a Freya di liberare la mente. Sentiva le gambe deboli, una novità per una che, la debolezza, era qualcosa che raramente aveva assaporato, era come se si aspettasse che il pavimento sotto di lei si aprisse inghiottendola in una voragine -Axel, aspetta- quanto avevano camminato? Aveva perso la concezione del tempo. Solo fermandosi, gettando uno sguardo alle pareti che li circondavano, riuscì finalmente a capire che si stavano dirigendo verso i sotterranei, probabilmente nella quiete della Sala Comune. Si portò una mano al ventre, mantenendo l'altra nella presa di Axel che sperò non lasciasse andare. Chinò leggermente il capo e le spalle in avanti, facendo respiri profondi nel tentativo di riprendere il contatto con la realtà ed allentare i nervi per riprendere la lucidità che da troppi minuti le era scivolata via dalle dita -Io non.. non avevo mai visto un cadavere prima- di cose strane ne aveva viste e subite ma, per sua fortuna, non era mai stata coinvolta abbastanza negli affari dei suoi genitori da arrivare ad assistere alla morte di qualcuno. Non aveva alcuna prova che i suoi genitori fossero degli assassini, anzi, li aveva sempre considerati troppo vili per partecipare in prima persona in qualcosa del genere, eppure era convinta che qualche morto gravasse sulle loro spalle, pur se non erano le loro le mani sporche di quel sangue. I suoi occhi saettavano da una pietra all'altra che costituivano il pavimento senza realmente vederle, mettendo ordine ai suoi pensieri, facendo mente locale e cercando di ritrovarsi in mezzo a tutto quel casino. Non le piaceva farsi sopraffare dalle sensazioni, come fosse una preda a cui era stata fatta un'imboscata. Poco alla volta, i muscoli che aveva tenuto in tensione per tutto il tempo cominciarono a sciogliersi e l'ansia a scemare. Riportò gli occhi chiari sulla figura del bulgaro, concentrando su di lui le sue attenzioni. Se prima, prima ancora del gioco, prima della cena, prima dell'evento, il nervosismo aveva preso possesso del suo corpo, da quel momento seppe che non ve ne era più motivo. Axel era una certezza, che lui ne fosse consapevole o meno. Al contrario degli altri che, era convinta, erano ormai sul punto di scoprire il segreto della sua maledizione, con lui quel pericolo non c'era. Il Serpeverde già sapeva e non aveva alcun motivo per svenderla ad una società ancora troppo bigotta per accettare tra loro dei ragazzi maledetti come loro. D'altra parte non lo aveva fatto neppure per gioco. Ora che erano soli, parte di tutto quel nervosismo poteva essere lasciato andare.
    -Scusa, sto bene. Credo- non era vero, non stava bene ma la verità era che non avrebbe saputo trovare una definizione a come si sentisse in quel momento. Non le era mai importato niente di quella donna, e continuava a non interessarle della sua morte ma, in ogni caso, era l'evento in sé ad averle fatto scattare più di un campanello di allarme -Cosa pensi succederà, ora?- affiancò di nuovo il moro, riprendendo ad avanzare senza più quella necessità di venire guidata, cercò sul suo viso qualche segno che potesse farle intuire i suoi pensieri o il suo umore chiedendosi, anche, come mai si fosse affrettato a volersene andare, nonostante gli fosse grata di questo. Superarono l'entrata della Sala Comune ma non si fermarono, andando diretti verso la stanza del bulgaro, evitando così tutti i loro compagni che presto sarebbero rientrati ai loro dormitori. Ferma, immobile in quel suo abito rosso che ora appariva ridicolo, si limitò a guardarsi attorno come se non avesse mai visto prima quella stessa camera -Sono un'idiota se dico che ho un po' paura?- sorrise amara continuando ad osservare i dettagli di quell'ambiente che avrebbe potuto ricondurre ad Axel, cercando di coglierne quelle sfumature private che non avrebbe mostrato fuori da quelle stesse mura. Solo alla fine, quando non le era rimasto più niente da osservare, tornò a puntare gli occhi chiari sul ragazzo. Lui ne aveva mai?

     
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    Una giornata iniziata a cazzo, continuata tale e a quel punto – poteva dire – finita peggio. Il mal di testa lo stava infastidendo da buon parte della giornata ma quel malessere sottile era il meno considerato il contesto alla quale era abbinato. Pochi giorni soltanto e la sua maledizione avrebbe imperversato cambiandogli non solo i connotati ma il suo aspetto per intero. Il corpo, quindi, subiva l’influsso di quel satellite che, ignaro, volteggiava gravitando intorno alla terra scoprendo e nascondendo il suo volto con il passare dei giorni e, più quel viso veniva mostrato, più il tormento s’agitava nelle membra del mannaro. Il suo corpo si tendeva, turgido, saturo di quel cambiamento nell’aria che presto sarebbe esploso anche nella sua pelle in una sanguinolenta rinascita ma in una forma differente da quella che riconosceva come sua allo specchio. Presto il lupo avrebbe preso la sua parte di palcoscenico rubando quella che era la sua quiete, quella che era la lucida freddezza con la quale andava interfacciandosi con il mondo volgendo quell’espressione austera e cinica al proprio interlocutore. Freya in quella serata ma non solo in essa poiché stava lentamente rubando porzioni delle sue settimane, aveva rappresentato una piacevole via di fuga da quel costante tormento rappresentato dalla sua vita. Con la svedese il bulgaro non aveva bisogno di parole. Freya capiva e soprattutto condivideva quella sorte fatta di dolore ed incubi che la stessa mannara gli aveva rivelato. Come lui, la mora non dormiva in prossimità del plenilunio ma se la Serpeverde aveva forse trovato sollievo in quella pozione che il ragazzo le aveva aiutato a fabbricare, lo stesso non poteva dirsi di lui che stoico e con una spiccata vena masochista accoglieva quel tormento quasi esso stesso fosse meritato a causa dell’orribile onta con la quale s’era macchiato in giovane età. Aveva ucciso suo fratello l’erede del fottuto nobile casato dei Dragonov, una delle famiglie più antiche e potenti della Bulgaria magica per quanto non navigasse da anni in acque tranquille. Da quando il precedente capofamiglia e padre di Axel, Dimitar, era stato arrestato per poi essere stato assassinato, la loro famiglia non aveva più avuto tregua. Elèna, nell’ignoranza, aveva dovuto gestire la maledizione acquisita dal suo secondo genito e vuoi l’inesperienza vuoi i pessimi consigli ricevuti, avevano finito per portarla a seguire una strada che l’aveva indotta a sperperare parte del patrimonio nei fini più sbagliati. Contenere era stata la parola d’ordine di quei pochi anni che il giovane Axel aveva passato in famiglia prima di macchiarsi del crimine più grande e per questo andarsene. Il resto era storia.
    Lo stesso crimine ma in un forma nettamente differente era stato perpetrato lì, quella sera, al castello di Hogwarts. Davanti ai suoi occhi il bulgaro aveva avuto modo d’osservare la rossa Scamander, solitamente animata dalla sua lingua tagliente, farsi pallida. Più bianca del già chiaro candore che caratterizzava il suo incarnato. I suoi occhi nocciola s’erano fatti più grandi, turbati, mentre il cambiamento più evidente avveniva a livello comportamentale. Quello non sarebbe passato inosservato a nessuno: Rain aveva balbettato. Rain Scamander la regina della Serpeverdi, la regina di Hogwarts non balbettava. Si era irrigidito e presto il suo sguardo era calato poggiandosi sul corpo esanime dell’insegnante. Fu come lo spezzarsi di un incantesimo. Quando era diventata così anonima? Quando così… brutta? Assottigliò lo sguardo calando le lunga ciglia sulle iridi verdi mentre istintivamente i sensi andavano amplificandosi, focalizzandosi percependo il silenzio più assoluto provenire da quel corpo. Non c’era più vita. La professoressa Lovecraft aveva esalato il suo ultimo respiro quella notte nella più totale inconsapevolezza generale dell’accaduto. Nessuno se ne era accorto, né lui né i docenti né la lupa accanto a lui. Nemmeno i suoi super sensi avevano potuto qualcosa. Roteò il capo verso il basso mentre le sopracciglia andavano a corrucciarsi incassando quel colpo al suo ego e lo sguardo finì per posarsi su Freya portandolo naturalmente ad affiancarsi alla mora. Il cuore di lei, invece, poteva percepirlo forte e chiaro. I battiti accelerati, l’adrenalina pompata in ogni dove fino a raggiungere il cervello che in pochissimo avrebbe elaborato le implicazioni di quella situazione. Il gioco, i moventi, la colpa. Lei era stata scelta per interpretare la parte dell’assassina: un caso? O un proposito? D’altronde era stata bravissima ad interpretare la parte della colpevole nascondendosi abilmente dietro quella dialettica che le apparteneva. Aveva tenuto palco rispondendo colpo su colpo dissociandosi dall’idea che avrebbe potuto c’entrare qualcosa con la morte della protagonista dirottando con logica il ragionamento di tutti quanti. Quale miglior nascondiglio quello della luce del sole. Era di nuovo quello il caso? O era stata usata come un capro espiatorio?
    Lo sguardo di Freya lo investì. I suoi grandi occhioni verdi erano limpidi ma intrisi di terrore. Era, per forza di cose, la prima sospettata per quanto quello fosse uno stupido gioco inscenato dai professori. La mano del mannaro si strinse attorno al suo polso. Una resa salda, d’acciaio ma rude. C’era poco da star lì a guardare. Gli auror avrebbero presto messo piede al castello. Maledetti sbirri ficcanaso. Dovevano – doveva – sparire. Le tirò il polso impartendole quello che era a tutti gli effetti un ordine e cominciò ad indietreggiare nelle più ombreggiate retrovie mentre il panico si faceva largo tra i presenti. Rumori di sedie stridenti, voci, paura e terrore si fecero largo aizzando quella folla di ragazzini impauriti che sarebbe presto stata domata dai proposti del castello. Scivolò in disparte facendosi naturalmente largo tra le persone che altro non volevano se non uscire dalla stessa stanza dove giaceva un corpo assassinato e tirò la lupa fino a che questa non protestò chiedendo una tregua. La fulminò con i suoi vitrei occhi verdi prima di darle nuovamente le spalle alzando il passo verso quella che era la Sala Comune e, di li a qualche metro la sua stanza.
    «Io non.. non avevo mai visto un cadavere prima» squittì sconvolta la Serpeverde. Benvenuta nel club!
    «Non qui.» Fu l’unico commento glaciale soffiato dal mannaro. C’erano occhi e soprattutto orecchie ovunque in quel dannato castello e, a quanto avevano appena avuto modo di assistere, anche un assassino che muoveva i suoi passi calcolati nascosto nel più totale anonimato. Potevano conoscere le sue mosse? No ma ciò che avrebbe potuto fare era fare in modo di tutelare entrambi. Ignorò tutte le sue domande alla quale non avrebbe saputo dare una risposta e si fermò unicamente quando finalmente valicarono la soglia della sua sua stanza. Lì richiuse la porta alle sue spalle castando un Muffliato sulla stessa. Mai come in quel momento reputava necessario proteggersi dagli indiscreti poiché, a prescindere, qualsiasi cosa fosse fuoriuscita dalle loro bocche avrebbe potuto essere stata male interpretata o, per quanto poteva saperne, avrebbe potuto incastrarli in una posizione ben peggiore.
    Gettò la bacchetta sul proprio letto dove vi prese posto a gambe larghe mentre, gomiti poggiati alle ginocchia, affondava le dita inanellate nei capelli corvini. Che situazione del cazzo. Che serata del cazzo di una vita del cazzo. Sbuffò e si stropicciò gli occhi stancamente. Di tutto avrebbe sopportato meno che quello, così vicino al plenilunio poi! Dove ogni gesto o parola arrivava amplificato, ingigantito nelle proprie intenzioni nel bene e soprattutto nel male. Non il miglior momento per ostentare una calma che non gli apparteneva.
    «Ma che cazzo ne so.» Sbottò con una certa frustrazione mentre il fastidio e l’irritazione maggiormente accentuati dalla fase lunare lo rendevano più intrattabile del solito.
    «Sarà una merda adesso» esordì. «La scuola finirà sotto la lente d’ingrandimento del ministero.» Giusto quello gli serviva! «Avremo gli sbirri col fiato sul collo!» Perché ne era certo fino al midollo che con un avvenimento simile il ministero avrebbe sicuramente inviato in pompa magna gli auror a difendere il castello e soprattutto ad indagare tra le mura. Axel non era direttamente connesso a quella particolare situazione – per quello che ne poteva sapere – ma ciò che lo preoccupava era la sua fedina penale (e morale) diversamente pulita. Sarebbe apparso sospetto? Avrebbero potuto incastrarlo? Sollevò lo sguardo incontrando quello smarrito della lupa.
    «Dimmi che non c’entri un cazzo» le ordinò ancora ma senza davvero avanzare reali accuse, non poteva crederlo. Perché avrebbe dovuto attentare alla vita della Lovecraft? Non aveva senso. «Come… Chi ti ha contattata per il ruolo? Hai parlato con qualcuno di sospetto? Cazzo…» Lei sarebbe stata la prima messa sotto al torchio degli auror per capire cosa sapeva, se poteva essere stata coinvolta. «Dammi la fiala!»
     
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    Freya Estrid Riis | V | Serpeverde


    Senza-titolo-3
    Il vociare concitato di studenti e professori, gli spostamenti frenetici e gli sguardi atterriti altro non erano che la prova che fosse accaduto davvero. Non più un gioco, tanto meno uno scherzo, e di certo non se lo stava immaginando. Molte erano le domande che le vorticavano nella testa mentre si lasciava trascinare lontano dal luogo del delitto: come, quando e, soprattutto, perché? Perché ora, perché lei. Chi era stato? Domanda che, più di ogni altra, sarebbe balzata di bocca in bocca fino a quando i responsabili non fossero stati presi. Non sono stata io, lo ripeté di nuovo a se stessa come poco prima aveva affermato al moro che, senza darle una spiegazione, la stava portando via. Continuava a ripeterselo per calmare l'ansia che stava salendo, per permettere al respiro di non arrestarsi, al suo cuore di ritrovare il giusto ritmo. Una pratica inutile, in quanto sapeva di non essere davvero lei la responsabile dell'uccisione della professoressa, quell'angoscia non dipendeva solo dai fatti degli ultimi minuti, no, ma era bastato uno sguardo di Axel per gelarle il sangue nelle vene. Duro, freddo, un'occhiata fulminante che l'avrebbe gelata sul posto se solo non avesse proseguito con il tirarsela dietro, imponendole il suo passo, senza aggiungere una parola, senza dare peso a quelle di lei. Certo, non era per la sua dolcezza o compassione che si era avvicinata al bulgaro, nonostante fosse stato in grado di mostrarle quel suo lato anche se, era sicura, mai il moro lo avrebbe ammesso, ma mai si era trovata a scontrarsi con un muro tanto inflessibile in sua presenza, in quegli occhi di solito tanto misteriosi e pieni di fascino ora vi leggeva quasi dell'astio e, ciò, le stringeva lo stomaco in un modo del tutto diverso da quello a cui era abituata in sua presenza. Era la stessa espressione artica che le veniva rivolta da sua madre ogni mattina che seguiva una notte di Luna piena quando, dopo aver sopportato il dolore delle sue stesse ossa che si spezzavano in ogni loro parte per riassemblarsi nell'altra sua forma, rientrava a casa, provata, costretta a subire quelle occhiate di rimprovero quasi quel dolore fosse una colpa più che una maledizione, il disgusto stampato sul volto della donna, e la paura che presto o tardi avrebbe trovato il modo per liberarsi dal fastidio che riusciva a procurarle. Mai, da che aveva conosciuto Dragonov, aveva avuto paura di lui. Anche dopo aver compreso la sua natura, non aveva mai temuto la sua forza, il suo carattere scostante o gli scatti d'ira che sapeva potevano manifestarsi, ma si rese conto di una nuova realtà con cui non aveva fatto i conti: temeva il suo giudizio. L'idea che potesse dubitare di lei, a riprova del fatto che non si conoscessero poi così bene, le fece tremare le ginocchia ed incurvare le spalle, lasciandola ammutolita a fissare il pavimento mentre, inerme, si lasciò trascinare fin nella sua stanza. Aveva paura, e lo disse senza tanti giri di parole. Lasciò intendere che si riferisse alla situazione creatasi in Sala Grande, ma non era solo di quello ciò di cui parlava. Tuttavia, ancora una volta, le sue parole non ricevettero risposta. Viste le sue preoccupazioni, avrebbe potuto aspettarsi quello che Axel le disse, invece fu come una doccia fredda “Dimmi che non c’entri un cazzo” spezzata a metà, ecco come si sentì. Le braccia di Freya, ora libere, caddero lungo i fianchi intanto che gli occhi color giada si soffermarono sul viso del ragazzo, le sopracciglia appena corrucciate in quella che era un'espressione di pura e semplice delusione -Pensi che avrei potuto farlo?- era preparata al fatto che gli altri vedessero in lei solo la belva che albergava nelle profondità del suo essere, quella parte sopita per la maggior parte del tempo che si risvegliava solo quando forzata dalla maledizione. Sapeva che, una volta scoperto, sarebbe stato difficile per gli altri scindere la creatura oscura dalla ragazza, avrebbero visto solo il mostro che avrebbero creduto che fosse. Se lo sarebbe aspettato da tutti, ma non da lui -No, Axel. Non sono un'assassina- l'espressione della brunetta si fece più dura, mortificata. Fosse stata più lucida avrebbe potuto notare che non vi era alcun tono accusatorio nelle parole di lui ma, la capacità di analizzare i fatti con nitidezza, se ne era andata lasciando solo lo sconforto e quella paranoia che da giorni l'accompagnava facendola sentire una perenne vittima come aveva sempre odiato considerarsi. Si sedette a sua volta, lontana da lui, sul letto del suo compagno di stanza, iniziando a torturarsi le mani ripercorrendo gli avvenimenti della serata nella mente già incasinata -Contattata per.. ma che stai dicendo?- esasperata indirizzò di nuovo le iridi verso il moro -Ero con te! Sono stata con te tutta la sera, ho pescato quel maledetto bigliettino come tutti gli altri e..- un braccio si sollevò per poi ricadere sul materasso, il susseguirsi delle vicende lo avevano potuto vedere tutti quanti tranne per pochi, forse significativi, attimi -Con chi vuoi che abbia parlato?- si alzò di nuovo, prendendo a camminare avanti e indietro, incapace di rimanere immobile mentre si sentiva messa sotto processo da una delle poche persone la cui opinione aveva rilevanza per lei. Estrasse la fiala, ancora sigillata, dalla scollatura e la porse al Serpeverde -Ho solo sentito una mano, quando tutto si è fatto buio, che mi infilava la fialetta nella scollatura- sorrise, amara, passandosi una mano sul volto provato -Onestamente credevo che al massimo questo mi avrebbe fatto ottenere una E nella materia di chiunque fosse, non certo un'accusa di omicidio- si fermò, poggiando la schiena in parte scoperta contro il telaio del letto a baldacchino del bulgaro. Non solo Axel, presto altri avrebbero sollevato dubbi sulla sua innocenza, e quelle occhiate che già da giorni avvertiva su di sé sarebbero diventate ancora più persistenti, ancora più accusatorie. La situazione era così irreale, ai suoi occhi, da risultare assurda -Immagino che cominceranno a guardarmi come il mostro che già sono- il sorriso non si spense, anzi, si lasciò andare ad una risatina bassa, nervosa, senza sapere cosa fare o dire, incapace di frenare quel nervosismo che cominciò a farle tremare le mani -Ah! E chissà che belle risate si faranno i miei genitori!- non aveva idea di come avrebbero potuto reagire se davvero fosse stata accusata in modo ufficiale. Da un lato, sapeva che si sarebbero risentiti per quella pubblicità negativa che si sarebbe riversata sul nome di famiglia ma, dall'altro, poteva scommettere che sua madre ci avrebbe goduto e non poco a vederla in difficoltà, sul ciglio di un abisso -Mi.. mi manca l'aria- ammise tornando seria -E questo maledetto vestito non aiuta!- con un dito allargò di poco la scollatura per allentare la tensione sul petto, proprio come aveva fatto poco prima in Sala Grande, ma senza la malizia che in altre situazioni avrebbe potuto usare. Gettò uno sguardo alla porta, conscia che di li a poco i primi studenti di ritorno dall'evento avrebbero invaso la Sala Comune e, se Aiden fosse stato tra quelli, anche quella stessa camera -Non dovresti farti vedere con me- non sapeva perché Axel fosse preoccupato degli Auror e il Ministero che avrebbero, sicuramente, messo sotto sorveglianza la scuola, ma quali che fossero le sue motivazioni, e nonostante l'egoismo che le faceva desiderare di sentirlo vicino, se quello fosse stato il suo desiderio lo avrebbe rispettato. Una volta le aveva detto che non gli importava degli altri, ma era davvero così?

     
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    Cadaveri. Quanti ne aveva visti? E quanti erano tali per mano sua? Un numero alto, fin troppo, quello che andava macchiando la fedina penale e l’anima del mannaro. Inizialmente, Axel, ne aveva tenuto il conto, una lista mentale, che andava ripetendosi notte dopo notte rientrando dalle missioni in cui il padrino lo spediva prescindere da quella che era la sua volontà. Non aveva mai avuto scelta. Era cominciato tutto il 2 novembre del 2017. Ricordava perfettamente la data, poiché, molto banalmente, era la data in cui compiva la maggiore età nel mondo magico. La data in cui, allo scoccare della mezzanotte, la traccia si sarebbe dissipata da lui rendendolo a tutti gli effetti un adulto agli occhi della società quando adulto non lo era affatto. Era soltanto un ragazzo, pieno di problemi caratteriali e comportamentali con una vissuto difficile alle spalle ma da quel momento, quanto quella vita si sarebbe intricata ancor più, non avrebbe nemmeno lontanamente potuto immaginarlo. Tutto sarebbe cambiato. Lui per primo.
    La traccia che fino a quel momento aveva monitorato qualsiasi sua mossa allo scoccare della mezzanotte era svanita. Axel non s’era sentito diverso, immaginava una qualche aura mistica che andasse a scomparire ma invece nulla di tutto questo era capitato. La mezzanotte era scoccata e, come un calcio in culo (non propriamente metaforico), il padrino gli aveva dato il ben servito alludendo al fatto che i suoi giorni da “inutile parassita” fossero conclusi lanciandolo nella sua prima missione in solitaria, contro il suo primo omicidio...
    Un parassita lo aveva definito Ethan. Come se davvero lo fosse mai stato! Certo, non aveva potuto compiere nulla a livello magico fino a quel momento ma, fisicamente, era stato lo schiavetto perfetto. La forza fisica, da sempre punta di diamante tra le sue caratteristiche, lo rendeva adatto a qualsiasi tipologia di lavoro soprattutto se usurante in quanto la sua parte animale proteggeva costantemente il suo involucro, il suo tramite, risanando ciò che lo sforzo avrebbe potuto storpiare, ciò che le privazioni, la tortura e l’abuso danneggiavano in lui. Ciò che i combattimenti in cui incappava avrebbero potuto togliergli. Infinite volte, era tornato in fin di vita o quasi dal padrino e lui, con uno sbuffo, aveva curato quelle ferito che ora drappeggiavano una mappa lungo il suo busto.
    Aveva ucciso una prima, una seconda, una terza volta e così via fino a perderne il conto non tanto per la numerica (seppur alta) quanto innalzando un meccanismo di protezione messo in atto dalla sua mente per mantenere il controllo di sé stesso dove qualcun altro, al posto suo, sarebbe scivolato nel baratro della follia. “È per auto difesa” si giustificava. Mors tua vita mea. Doveva farlo se voleva tornare a casa e seppur la vita che viveva fosse a tratti troppo difficile era troppo codardo per porre fine a quelle sofferenze poiché ciò avrebbe rappresentato una scappatoia nei confronti dei suoi peccati. Aveva ucciso, primo fra tutti, suo fratello e con esso sé stesso. Aveva metaforicamente ucciso la sua famiglia con quell’atto segnando nelle sue convinzioni quello che era il suo destino. Doveva pagare. Per cui, pur di salvarsi la pelle, pur di mandare avanti quell’esistenza che non sapeva più se valesse la pena vivere, uccideva. Non si faceva scrupoli. Era lui o l’altro, il suo avversario. Banale, semplice ma era la più totale verità. Non aveva altra scelta se non scegliere di togliere quella vita, d’elevarsi a giudice e boia nella stessa figura ed il tutto pur di salvare sé stesso. Morire sarebbe stata una scappatoia troppo semplice che non giudicava di meritare. Ed ora, tutto quel sangue, tutta quella pena, erano diventati unicamente un bagaglio d’esperienza che lo rendeva indifferente alla natura intrinseca dell’omicidio stesso. Axel guardava a quei corpi con distacco. Dissociandosi da chi essi rappresentassero davvero. Chi erano stati. Era da un po’ che Ethan non lo convocava, dalla questione della nipote. Probabilmente la follia di quest’ultima e le vicissitudini legate al contratto, lo stavano tenendo più occupato del solito.
    Ma quella notte la morte lo richiamò a sé presentandosi prepotentemente a rompere quel momento di pace. La sua vita era un’unione di momenti. Aveva espirato impercettibilmente mentre la fredda lucidità della sua mente calcolatrice, abituata a quel tipo di situazioni, lo estraniava da ogni umana emozione. Pro e contro.
    La morte della professoressa Lovecraft pose fine a quell’intervallo.
    Axel aveva guardato al volto della donna che fino a pochi giorni prima aveva persino trovato attraente, inspiegabilmente leggendovi il nulla. La morte le aveva sfigurato i lineamenti ed ora, per il mannaro, era stato possibile riconoscere quella tonalità spenta, opaca, quel grigiore lasciato dalla privazione della vita. Brutta.
    Non s’era lasciato toccare dalla vicenda e subito era passato alla lettura pragmatica di quella situazione. Cosa fare. Come muoversi. Chi proteggere. Freya.
    L’aveva tirata a sé costringendosi a muoversi, ad abbandonare quella sala soffocata di persone nel panico per trascinarli lì, nelle segrete di Serpeverde, dove avrebbero riorganizzato le fila e dove le ordinò di ammettere se era presente un suo reale coinvolgimento. La mannara lo osservò di rimando, eretta e fiera nonostante il suo sguardo, la sua espressione, fossero attraversati da un lampo di delusione. Non si aspettava quel tipo di trattamento da lui.
    «Pensi che avrei potuto farlo?» Lo incalzò con un punta che percepì come sarcasmo. Lei forse no ma lui, se gli fosse stato ordinato . Era questa la differenza che intercorreva tra loro e dal modo in cui si pose successivamente e dal linguaggio non verbale messo in atto dal suo corpo, il Dragonov, intuì quella certezza. Eppure, nonostante l’altra si aspettasse una parola da lui o un qualsiasi segno di supporto da parte sua il bulgaro non si mosse, non emise fiato continuando ad attendere, freddo, la sua risposta:
    «No, Axel. Non sono un’assassina.» L’aria tra loro si caricò della delusione dell’altra ma ancora una volta il moro la bypassò per concentrarsi sui punti focali di quella questione: non era stata lei, non volontariamente quantomeno per cui, adesso, doveva escludere il coinvolgimento di possibili terze parti.
    «Contattata per... ma che stai dicendo?» I taglienti occhi verdi continuarono ad inchiodarla con la stessa intensità, la stessa autorità fino a che lei, esasperata non vuotò il sacco passandogli poi la fiala dal luogo in cui era stata custodita fino a quell’attimo.
    «Dovevo chiedertelo» disse inespressivo, come se la questione fosse di poco conto. Come se non l’avesse ferità in quel modo fino a quel momento. Come se quelle parole potessero giustificare e cancellare la delusione che aveva letto in quei limpidi occhi color giada e come se quelle affermazioni non avessero potuto essere il frutto di una recita ad arte. Il suo era un atteggiamento arrogante, presuntuoso per certi versi ma il suo istinto e la sua esperienza lo aiutavano a riconoscere un bugiardo così come i piccoli segnali impercettibili all’occhio e all’orecchio umano. Lui però non era umano, non del tutto, ed il suo padrino lo aveva allenato ad usare quei poteri, quella sua natura tanto odiata per trasformarlo in una macchina della verità sufficientemente affidabile. Freya non stava mentendo.
    «Che merda!» Commentò finalmente rompendo quella rigidità mentre s’infilava una mano nei folti capelli scuri abbassandola fino a premersi per lunghi attimi sulle palpebre. Il mal di testa tornò a manifestare la sua ingombrante presenza ed insieme ad essa l’agitazione tornò a picchiare in petto alla mannara accelerandole il cuore e, con esso, il picco d’adrenalina che la mandò in panico.
    «Freya, Freya.» S’alzò lasciando andare la fiala sul letto, incustodita, mentre a grandi falcate decise copriva la distanza che lo separava dalla mannara. Le circondò con attenta delicatezza il viso mentre tutto in lei collassava nel panico. «Ssssh, ssh.» Le carezzò il viso costringendola a sollevarlo per incontrare i suoi calmi occhi verdi nel tentativo d’infonderle parte di quella lucidità andata perduta.
    «E perché no? Non hai fatto niente.» Scrollò le spalle. Non poteva fottergliene di meno degli altri e di ciò che pensavano ma doveva essere pronta.
    «Non sei un mostro, okay?» Continuò a fissarla attendendo un cenno da parte sua. «Non lo sei. Sei stata incastrata o usata in questa storia. Ciò che dovrai fare adesso sarà assolutamente collaborare con gli... auror. Gli consegnerai quella roba. Niente giochini, Freya. Niente cazzate. Dagli ciò che vogliono. Mostrati ingenua, mostrati innocente» ciò che era, «non dargli modo di dubitare di te. Levati la spavalderia.» Era una donna, il sesso debole per antonomasia, per lei sarebbe stato semplice sbattere le ciglia allargando gli occhioni. Ed era bella. Chiunque era più propenso di fronte al bello, più predisposto ad ascoltare. L’avrebbero lasciata in pace se lei gli avesse servito l’immagine della ragazzina in difficoltà. «Puoi farlo?» Le domandò ma in quella richiesta era sepolto un ulteriore comando, un dovere: devi farlo.
    Attese la sua replica.
     
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    Freya Estrid Riis | V | Serpeverde


    Le parole di Axel risuonarono come un pugno nello stomaco di Freya, un duro risveglio dalla realtà distorta in cui si trovavano tutti, nessuno escluso. Che merda. Dragonov aveva ragione, non avrebbe potuto trovare parole migliori per descrivere quella situazione irreale in cui si erano ritrovati. Un omicidio, l'apoteosi dell'oscurità in grado di annidarsi nel cuore dell'umanità, un atto capace di riflettere la più profonda caduta morale di un individuo, eppure così ricco di sfaccettature complesse da non poterlo ridurre ad un semplice atto malvagio. La morale, poi, era qualcosa di così soggettivo che era difficile poter stabilire dei limiti universali che potessero adattarsi ad ogni essere umano che volesse considerarsi tale. Forse, se fosse stata una ragazza comune, sarebbe stato più semplice catalogare la questione come sbagliata senza possibilità di obiezione, ma Freya non era una ragazza comune per natura e, proprio quest'ultima, spesso le faceva risultare difficile porsi un limite. C'erano situazioni, quando la rabbia prendeva il sopravvento, quando la bestia fremeva sotto la pelle, stimolata dalle circostanze, che sentiva che sarebbe stata capace di ogni cosa, anche le più riprovevoli. Avrebbe mai potuto uccidere qualcuno? Sarebbe stato bello poter affermare con decisione e convinzione che no, non lo avrebbe mai fatto per nessun motivo, ma era davvero così? Ogni giorno era una lotta continua con se stessa, per mantenere il controllo costante e non lasciarsi andare agli istinti che facevano, a loro modo, parte integrante di lei ma, fosse stata onesta almeno con se stessa, avrebbe detto che no, non era davvero così. Per difendere una delle poche persone a cui teneva, e se stessa in primis, lo avrebbe fatto senza pensarci due volte. Egoista, forse anche opportunista, avrebbe piegato ogni briciola di morale che aveva in corpo e, era probabile, nemmeno si sarebbe sentita in colpa. Non sapeva dire, questo, che tipo di persona la rendesse e, quel che peggio, non se ne poneva neppure il problema. La complessità di quell'atto di puro male era in contemporanea repulsivo ed attraente e, questo, l'affascinava e terrorizzava allo stesso tempo. Più volte aveva avuto paura di se stessa e, il panico scatenato dagli avvenimenti di quella sera, fecero nascere in lei pensieri e ragionamenti a cui avrebbe preferito non prestare attenzione ma, almeno in quel momento, rimanevano pensieri marginali, soffocati dalla preoccupazione egocentrica verso se stessa. Il cuore le martellava in petto lasciando che il frastuono le riempisse le orecchie, il respiro divenne irregolare mentre, come un fiume in piena, lasciava trapelare pensieri sconnessi alternando stati d'animo diversi che la facevano sentire folle, incapace di rimanere all'interno dei limiti della logica, fino a quando non avvertì le mani grandi di Axel sul suo viso, il suo nome che le arrivò quasi ovattato, facendola fermare, frenando l'isteria senza calmarla del tutto. Lo sguardo di lei continuò ad alternarsi tra gli occhi del Serpeverde, senza riuscire a darsi pace. Era così sereno, almeno all'apparenza, placido e tranquillo, da immobilizzarla sul posto per dargli ascolto. Invidiava quella serenità che riusciva ad emanare e tentò di farla propria ascoltando, per la prima volta da quando avevano lasciato il banchetto, parole che non la ferissero “E perché no? Non hai fatto niente” poche e semplici parole, come da abitudine del moro, ma che ebbero comunque la capacità di frenare il flusso di pensieri della brunetta -Allora mi credi- non una domanda la sua, piuttosto una constatazione stupita che le fece sgranare appena gli occhi, sorpresa e, soprattutto, sollevata dopo quella delusione iniziale che l'aveva colta impreparata. Che Axel le piacesse era, oramai, un'informazione che aveva accettato, seppur con riluttanza, ma rendersi conto di quanto influente fosse il suo giudizio per lei era tutto un altro paio di maniche.
    -Non voglio darti problemi- ruvido, scostante, a tratti arrogante, se ne potevano dire molte sul bulgaro, ciononostante si era sempre dimostrato disponibile con lei, carino, persino in quel momento in cui aveva ogni ragione per volerle stare distante ma, pareva, non aveva intenzione di farlo per evitarsi un problema in più. Gli angoli della bocca si sollevarono verso l'alto, sollevata, pure se una parte di lei si chiedeva se lo avrebbe fatto per qualunque delle ragazze che si portava a letto. Ma era li, con lei, quando avrebbe potuto essere con chiunque altra. “Non sei un mostro, okay?” l'ondata emotiva che la investì le fece ascoltare a fatica il resto del discorso del verde-argento -Ci.. ci proverò- fu la sua risposta pragmatica alla quale seguirono attimi di silenzio. Quante volte si era sentita dire il contrario? Ogni volta che da bambina si feriva e le lesioni guarivano sotto i suoi occhi. Mostro! Ogni volta che si arrabbiava e perdeva il controllo lasciando che gli artigli venissero allo scoperto. Mostro! Ogni volta in cui rientrava in casa, stanca e sporca, dopo una notte di Luna piena. Mostro! Ogni volta in cui non si trovava neppure nella stanza ma riusciva a sentirli mentre usavano quella stessa parola al posto del suo nome. Mostro! Ogni volta in cui avevano rifiutato un matrimonio combinato senza dare troppe spiegazioni. Mostro! Gratitudine e sollievo furono le prime sensazioni che la pervasero nei confronti del moro ma, al tempo stesso, il senso di colpa e l'idea di non meritarselo presero il sopravvento, facendole afferrare le mani del bulgaro e liberandole il volto, riportandole lungo i fianchi -Come lo sai? Che non sono un mostro- lo sguardo si abbassò su quelle stesse mani che non aveva lasciato andare, aumentandone la presa -Tu non sai.. io..- balbettò intanto che le frasi le morivano in gola prima di trovare il coraggio di continuare -Non l'ho uccisa io, ma nemmeno mi importa che sia morta- ammise infine ostinandosi a mantenere lo sguardo basso -Mi preoccupo per me, per te, per i miei amici- Per Seth -Ma per quella donna non sento niente. Questo non mi rende un mostro?- solo alla fine sollevò di nuovo gli occhi smeraldini, pieni di imbarazzo, per incontrare quelli pacifici di lui. Aveva sempre saputo di essere un'egoista, ma non aveva mai realizzato fino a che punto. Così come non sapeva perché lo stava rivelando proprio ad Axel, a cui avrebbe voluto piacere ma, invece, stava rivelando la parte peggiore di sé, quasi lo stesse mettendo alla prova. Per cosa, poi, non lo sapeva neppure lei. Quel loro rapporto era ancora un'incognita a cui non sembrava potesse trovare una risposta nel giro di breve tempo. Lasciò le mani al Battitore, come se non meritasse di entravi in contatto -Vuoi sapere un segreto?- si spostò i lunghi capelli su una spalla, incapace di stare ferma -Sai cos'ho pensato mentre lasciavamo la Sala Grande oltre ai miei interessi?- le mani si serrarono a pugno, le gote si tinsero di un leggero colorito roseo e le sopracciglia si corrucciarono in un'espressione colpevole -Che sentivo odore di bistecche, e non ce le hanno fatte nemmeno assaggiare- auto-sabotaggio, puro e semplice. Se prima non aveva motivi per starle lontano, ora ne aveva a sufficienza. Non sapeva se ridere di se stessa o rimanere seria, oltre che imbarazzata per mostrarsi tanto sincera. Si strinse le spalle, impalata davanti al ragazzo, sentendosi ancora più piccola di quanto già non fosse in confronto a lui, nuda anche se vestita per l'ennesima volta davanti allo stesso ragazzo.

     
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