Don't wanna miss youwith Michael.

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    Grifondoro
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    «Io Mars...» Aveva fatto una pausa, lo sguardo basso ma poi, prendendo una boccata d’aria, aveva inspirato il coraggio e aveva scelto di fare ciò che andava fatto. Aveva preso il toro per le corna e, con la fierezza ed il coraggio che contraddistinguevano i membri della casa di Godric Grifondoro aveva fatto ciò che andava fatto. Aveva dovuto farlo. Aveva dovuto mettere da parte il suo cuore in pezzi, la sua mente dilaniata dai dubbi e dalla paura di stare facendo un errore. Dalla paura della concreta possibilità che non avrebbe mai trovato nessun altro ad amarla come faceva Marshall ma infine lo aveva dovuto fare. Per entrambi. Per sé stessa. Per Marshall.
    Marshall meritava di meglio. Meritava una ragazza che fosse concentrata unicamente su di lui, che adorasse lui e Grace lo era stata solo in un primo momento poi, la schiacciante realtà dei fatti impersonata dal Serpeverde aveva preso, stravolto tutto e si era appropriata del sopravvento. Non era più giusto nei riguardi di nessuno e lei aveva dovuto prendere in mano la situazione. Lo aveva dovuto fare per entrambi.
    «Io credo sia meglio che ci lasciamo.» Ecco, l’aveva detto. Lo aveva detto ad alta voce e le parole erano state la linea di demarcazione, l’esatto punto di non ritorno che avrebbe segnato la fine della loro storia. Marshall era rimasto impietrito e, lentamente, i suoi occhi avevano perso il calore che li avevano sempre animati in sua presenza o quando anche solo si parlava della Grifondoro. Lentamente si trasformarono in quella lastra di freddo metallo duro con cui solo un’altra volta l’aveva guardata a quel modo. I bei lineamenti s’erano induriti e per un breve istante sfigurati dalla rabbia ma Marshall non aveva fatto nulla. L’aveva guardata, un’ultima volta, aveva scosso il capo e l’aveva lasciata lì nel giardino ma per estensione anche nella vita. Senza ribattere, senza dirle nulla, senza combattere come invece lei pensava avrebbe fatto. Ma a che pro? L’aveva deluso, l’aveva colpito e nel farlo aveva affondato la lama nel suo petto.
    Grace strinse i pugni, tremanti lungo il profilo della sua figura, impedendo a quel desiderio di corrergli dietro di concretizzarsi. Non doveva farlo. Non era giusto, né per sé stessa rimangiarsi quelle parole né per il Tasso illuderlo ancora, a lungo e inutilmente. Era inutile, era stato tutto inutile e solo ora capiva quanto tempo avesse perso per entrambi, quanto avesse illuso entrambi mandando avanti un rapporto che, per quanto l’avesse accesa dentro, era stato destinato ad estinguersi come un fuoco di paglia. Era bruciato, troppo presto, ma la realtà era che i due giovani non erano fatti per stare insieme. Non in quel momento, forse in un futuro o forse mai più. Forse amici o forse, dopo quanto successo, nemmeno più quello ma, e Grace l’avrebbe poi capito, tutto quel dolore sarebbe poi stato un bene. Troncare quel rapporto sarebbe stato un bene per entrambi poiché nessuno dei due faceva più bene all’altro. Non da quando Michael Harris era tornato prepotentemente nella vita della Grifondoro scombussolandola. Sarebbe stato tutto molto più semplice se lui fosse stato odioso e intollerabile come il fratello maggiore, le sarebbe stato semplice odiarlo se ciò che pensava le avesse fatto fosse stato reale ma la verità, aveva scoperto, era stata un’altra e del tutto diversa. Qualcuno s’era divertito a mettere loro i bastoni tra le ruote ma la sincerità o l’ingenuità della Grifondoro – era pur sempre un modo di guardare i risvolti della stessa medaglia – aveva fatto sì che i due giovani s’avvicinassero di nuovo e con essi anche i loro sentimenti. Quelli di Michael sempre presenti e quelli di lei, un po’ assopiti dal dolore e dalla paura ma che erano andati risvegliandosi d’incontro in incontro.
    Michael non aveva mai nascosto ciò che provasse per lei. Dal primo appuntamento lì nella Sala Grande in occasione del ballo studentesco, l’aveva corteggiata sin dal primo istante e poi, fregandosene totalmente della relazione che lei aveva in atto, aveva continuato a farlo incapace di mettere da parte ciò che provasse per lei quasi esso fosse motivo di vita o morte. Lei doveva sapere. E lo aveva capito Grace, lo aveva capito. Ed ora, sempre lei, era impaurita ma doveva accettare di fare i conti con quel sentimento che aveva capito ricambiare per il Serpeverde. Ma Michael non c’era. Michael era partito. Glielo aveva detto nel laboratorio di pozioni quando l’aveva aiutata con l’unguento da presentare al professor Fletcher che peraltro le aveva fatto guadagnare la bellezza di quindici punti per la sua casa surclassando temporaneamente Corvonero nella Coppa delle Case. Quella era una sfida ancora aperta che avrebbe trovato pace nel giro di qualche settimana.
    Era quindi stato memorabile per lei recuperare la materia e aver portato un concreto aiuto. Era stata al settimo cielo come non lo era stata da tempo e la prima cosa che le era saltata in mente era stato cercarlo. Era stato correre a dirglielo. Lo aveva cercato per ringraziarlo dell’aiuto solo che, poi, s’era ricordata della sua partenza. Michael era partito per l’America, la terra dalla quale proveniva poiché la sua famiglia lo aveva convocato. La sua famiglia della quale era turbato, persino spaventato e della quale non aveva proferito parola in risposta alle sue domande ma dalla quale, Grace, aveva estrapolato quanto le interessava sapere. Più s’avvicinava alla verità e meno il ragazzo diventava loquace e questo la spaventava, questo, l’aveva portata a temere per il peggio a temere per la sua incolumità. I giorni erano passati e gli esami andavano facendosi sempre più vicini. “Avevi detto una settimana” pensò mandando avanti la riproduzione sullo schermo del cellulare notando, ancora una volta, il progredire dei giorni sul display. Invece era passato più tempo, invece il termine era scaduto e, ancora una volta, la chat sul cellulare era rimasta muta nell’attesa di un suo segnale di vita. Grace non sapeva più che pensare. Ogni giorno, tutti i giorni si era recata ai confini del castello. Era uscita dal perimetro, si era allontanata di quelle centinaia di metri inoltrandosi nel sentiero verso Hogsmeade e aveva atteso che il cellulare prendesse campo. Aveva scorto le notifiche alla ricerca del suo nome e, non trovandolo, si era seduta ad aspettare un poco per poi, in lacrime, fare ritorno al castello. Lì si era nascosta, isolandosi dal resto del mondo per sfogare tutta la sua tristezza in un solitario pianto liberatorio. Era stato lì, nel suo nascondiglio, che lo spettro della casa di Tassorosso l’aveva trovata. Il fantasma si era scusato per averla spaventata e poi, riconoscendola, si metaforicamente seduto accanto a lei per confortarla. Grace gli era stata grata e mai avrebbe pensato che nella vita sarebbe stata consolata da un essere incorporeo.
    “C’è qualcosa che posso fare per te piccina?” E le parole, la richiesta, le uscirono spontanee.

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    Quel giorno non era stato differente. Era appena tornata dalla sua passeggiata al confine ma al posto di recarsi al campo per sfogare la frustrazione era tornata al castello. Aveva scelto d’andare in biblioteca e, fingendo di dover studiare aveva sepolto il naso in alcuni libri. La verità era che non voleva parlare con nessuno, la verità era che non voleva dare spiegazioni a nessuno.
    “Miss Johnson?” Appunto. Eppure, nemmeno in quel dannato luogo di silenzio era riuscita a trovare la quiete che voleva. “Miss Johnson?!”
    «Non sono dell’umore... la prego.» Non ce l’avrebbe fatta ad essere gentile, a mettere da parte i pensieri per giocare una partita a carte che potesse definirsi tale. Lo aveva fatto nei giorni precedenti quando presa, dai sensi di colpa, aveva scongiurato il fantasma di ignorare la sua arrogante richiesta totalmente fuori luogo ma il fantasma agitò le mani fermando quel flusso di parole. “È tornato!” Grace s’impietrì mentre la sua bocca articolò un mugugno privo di significato. “È tornato! Sta rientrando! Presto corra.”
    «Michael?»
    “Sì! Vai!”
    Gli occhi della Grifondoro si spalancarono ed esclamando dei ringraziamenti al frate e poi delle scuse al bibliotecario si fiondò di corsa al di fuori della biblioteca scendendo i gradini a due a due per poi saltare gli ultimi cinque guadagnando ulteriori secondi sul suo percorso. Corse a perdifiato fino a che non fu all’esterno e fino a che la figura del Serpeverde non le si palesò davanti quasi fosse un miraggio. S’arrestò recuperando il fiato e poi a pieni polmoni urlò il suo nome prima di correre incontro saltandogli con le braccia al collo. «Sei tornato!» Affondò il viso nel suo collo stringendolo forte a sé. Era tornato.
     
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    Michael Harris

    Posò a terra a borsa contenente i suoi pochi stracci. Stanco. Gli occhi bruciavano. Erano giorni che non riusciva a prendere sonno a causa dei ricordi che gli martoriavano l’anima, strappandola in brandelli così piccoli da rendergli impossibile vivere quella quotidianità alla quale era abituato prima di fare ritorno in patria. Sprazzi di felicità oramai lontana. Percepiva il nuovo Io sovrastare quell’essenza per la quale si era battuto. Lo stava soffocando, lasciandolo in preda ad un delirio interiore che, di quel passo, lo avrebbe spinto a compiere quell’atto estremo e sconsiderato che avrebbe, comunque, posto fine a quella sofferenza straziante. Si lasciò scivolare a terra, ai piedi del letto. Inerme. Stremato da tutto ciò che era stato costretto a subire ingiustamente. Ancora non riusciva a capacitarsi del come aveva potuto piegarsi a quel sadismo, perpetrato da quell’uomo che al posto del cuore aveva una voragine la quale conduceva dritta all’inferno, il suo regno del terrore. Socchiuse le palpebre mentre, con urgenza, incamerava l’ossigeno necessario per una sana respirazione e reprimendo, così, quell’attacco di panico che l’avrebbe condotto sulla via del non ritorno. Cosa sarebbe accaduto se avesse perso il controllo, finendo per ferire o -peggio- uccidere qualcuno? Beh, non sarebbe poi cambiato così tanto visto e considerato il suo recente trascorso. Affondò le dita nei suoi capelli arruffati e li strinse, come per voler strappare via ogni traccia della sua presenza nel Bronx, la stessa che aveva segnato per sempre, indelebilmente, la sua esistenza. Strinse i pugni, affondando le unghie nei palmi delle mani, fino a quando il dolore non raggiunse quell’intensità utile ad ordinare al suo cervello di focalizzarsi su di essa. Non servi poi a molto. Qualche secondo e fu punto a capo. Un circolo vizioso mortale. Sospirò e, facendo leva sulle ginocchia, si riportò in posizione eretta mentre, riuscendo poi a raggiungere il letto a lui designato. Si stese e, con il dorso della mano andò a coprirsi gli occhi, oscurando la visuale sul soffitto di quella camera arredata con dubbio gusto. Gli occhi, lentamente, andarono a serrarsi ed, improvvisamente, si sopì cadendo tra le braccia di un Morfeo bastardo, per niente accomodante. Da lì, fu tutto in salita, nonostante no vi fosse il reale pericolo esercitato da Dean Harris.
    ”Uccidilo!” Imperativo. Lapidario. Quel tono di voce lo aveva scosso dalla sua calma apparente, aiutandolo ad affacciarsi a quella realtà che non lasciava presagire nulla di buono. Si osservava, come fosse un banale spettatore di sé stesso, dall’alto, chiamato a giudicare quel film sulla sua discutibile vita. No. No. Non farlo! Continuava a ripetere ma dalla sua bocca non fuoriusciva alcun suono. Urlava ma quell’essere ignobile, protagonista di quello che sarebbe stato un brutale assassinio, non riusciva a sentirlo. Improvvisamente alzò la testa e, come in uno specchio, il suo riflesso divenne chiaro. Occhi negli occhi. Era stato lui. Lui aveva ucciso Coleman, dopo quella sofferenza inflittagli solo ed esclusivamente per essersi trovato nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Non era stato suo padre. Non erano stati i suoi scagnozzi, pronti a sbavare allo schioccare delle sue dita. No. Era stato lui: Michael Noah Harris. Sgranò gli occhi e pose fine a quel supplizio. Si trovava solo nella stanza, in un bagno di sudore, abbandonato a sé stesso ed incapace di chiedere aiuto. Si tirò a sedere mentre la gamba interessata dalla frattura pulsava a più non posso, come per voler rincarare la dose lì, dove non era per niente necessario. Il chiavistello della porta scatto ed a fare il suo ingresso nella stanza non fu altro che Malachai Parker che gli riservò un’occhiata torva, accusatoria, come se fosse infastidito dal suo ritorno. Non si scompose nonostante lo shock provocato da quell’incubo, non desse alcun segno di voler scemare. Lasciò la sua postazione e senza degnare di uno sguardo quello che per lui era solo fonte di disagio, prese la decisione di lasciarsi alle spalle il dormitorio per tentare fortuna altrove. Un bell’azzardo, considerando i pochi posti che gli avrebbero permesso di riflettere, in santa pace, sulle possibilità che gli rimanevano per porre fine al più presto a quella farsa che, per forza di cose, avrebbe mutato radicalmente la sua coscienza. Si immerse nella penombra dei sotterranei, passando nei pressi delle cucine dalle quali fuoriusciva quel classico tripudio di profumi provenienti dalle svariate pietanze messe a punto dagli elfi domestici. Tutto sembrava essere al proprio posto. Tutto tranne lui. Era stata una buona idea tornare al Castello? Se solo fosse stato meno egoista, forse, sarebbe stato in grado di prendere la decisione giusta, una volta nella sua vita permettendo a Grace di dimenticarlo e continuare sulla sua strada, lontana da quei pericoli che con lui avrebbe corso. Pensieri inutili perché, per ogni istante speso lontano da Grace, la sua mente non gli aveva fatto altro che ricordare quanto quella ragazza fosse importante per lui. Per la sua sopravvivenza in quel mondo austero che, alla fine, gli aveva presentato il conto, così da sbattergli in faccia la sua vera natura. Ma, lei, non ne aveva colpe e non le avrebbe chiesto di sopportare tutto ciò. Riemerse alla luce del sole estivo e, continuando a camminare evitando sguardi indiscreti, si portò all’esterno, ripercorrendo il sentiero che, poche ore prima, l’aveva ricondotto alla sua solita vita. Quella che aveva imparato ad apprezzare con estrema facilità. Non trovò nessuno ad ostacolargli il cammino quindi, lentamente, dopo essersi acceso l’ennesima sigaretta della giornata, raggiunse i cancelli e si fermò ai loro piedi. Alzò lo sguardo e cercò, in mezzo alla merda che gli era stata riversata addosso, un solo motivo per non oltrepassarli e lasciare quel luogo, divenuto casa, per sempre. Si voltò e l’immagine da cartolina di quel castello gli scaldò, per qualche attimo, il cuore che pensava di aver perso dopo aver messo fine alla vita di un uomo che, come lui, nutriva dei sentimenti per qualcuno: una moglie, dei figli. Chi? Non era importante. Quell’uomo era un padre, un marito, un figlio e lui, come fosse Dio, aveva sancito la fine della sua esistenza. Devo andare via. Ma allora, perché era tornato? Ebbe inizio una battaglia interiore. Un conflitto che da un lato lo vedeva come carnefice mentre, dall’altro, una mera vittima degli eventi, privo di potere decisionale su sé stesso. Ma dove stava la verità? Nel mezzo? Forse sì o, almeno, gli faceva comodo crederlo. Nonostante il suo essere fosse cambiato, per Michael, una promessa andava mantenuta e lui aveva promesso a Grace che sarebbe tornata da lei. In un modo o nell’altro. Ed era ciò che, esattamente, avrebbe fatto. Un ultimo sguardo a quei cancelli che l’avevano accolto ancora una volta e si affrettò a tornare sui suoi passi, svolto e deciso ad andarsi a riprendere colei che aveva giocato un ruolo fondamentale nella sua sopravvivenza a quell’inferno. Aveva quasi raggiunto la scalinata adiacente al portone di ingresso quando, la figura della Grifondoro, entrò prepotentemente in scena, urlando il suo nome a perdifiato e correndo nella sua direzione, terminando la sua corsa in quello che aveva tutta l’aria di essere un abbraccio disperato, come se avesse perso la speranza. La sollevò leggermente da terra, stringendola tra le braccia ed assaporando ogni istante di quel momento tanto atteso. Affondò il viso nell’incavo del collo. “Sono tornato.” Sussurrò al suo orecchio prima di scostarla per esaminarla, così da sincerarsi che stesse bene. “Te l’ho già detto: tornerò sempre da te.” Che tu ci creda o no. Le accarezzò il la guancia, lentamente mentre i suoi occhi algidi passavano in rassegna quei lineamenti provati dalla preoccupazione che le aveva inflitto, senza poter muovere un dito. “Mi sei mancata.” Non vi era stato un solo giorno in cui non si fosse chiesto come stesse. Mai uno. “Ora sono qui. Voglio solo sapere se stai bene!” Cosa era accaduto durante la sua assenza? La sua espressione non era affatto distesa. Era sua la colpa? Spero che un giorno tu possa perdonarmi per tutto il dolore che ho causato, Grace. Ma ciò rimase implicito, senza voce, custodito nel profondo di quel ragazzo che avrebbe messo la sua stessa vita a repentaglio per proteggerla.
     
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    Grifondoro
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    «MIKE!» Come una visione, lì in procinto di salire le gradinate per rientrare al castello, eccolo in piedi e fiero esattamente come lo ricordava. Grace aveva percorso quegli ultimi metri di corsa e con slancio gli si era buttata addosso avvinghiandosi al collo per affondare il viso contro il suo petto. Era tornato! Era tornato e fu come se il magnetismo gravitazionale l’avesse nuovamente attratta al pianeta impedendole di perdersi nella galassia dell’universo sperduto quali erano i suoi timori. Fu come se i pezzi di quel puzzle di angosce fossero giunti nuovamente al loro posto. Tutta l’ansia, la preoccupazione provata in quei giorni si dissolsero stretta com’era in quell’abbraccio che presto fu ricambiato. Solo un istante il Serpeverde aveva esitato, fisiologicamente colto alla sprovvista dall’impeto della Grifondoro, e poi presto anche la sua stretta si era fatta viva contro l’esile corpo di lei stringendola con lo stesso trasporto della ragazza. La sollevò da terra e Grace, naturalmente, serrò la stretta contro il suo collo rifugiandosi in quello che era l’incavo naturale formato con il suo orecchio. «Sei tornato», sussurrò incredula sia a sé stessa che al ragazzo in quella che ad un occhio ed orecchio esterno poteva apparire come un’assurdità poiché per quale motivo non avrebbe dovuto essere così? Il ragazzo s’era assentato con regolare giustificazione presentata alla scuola per una settimana (e più) per motivi familiari. Perché quel trasporto? Perché quella drammaticità nei loro gesti quasi il ritorno di lui in realtà non fosse così scontato. Ma ciò che il Serpeverde non sapeva era quanto la Grifondoro aveva appreso, per vie traverse ed assolutamente non verificate, e allo stesso tempo e soprattutto quanto la sua mente aveva lavorato e ricamato su quelle stentate informazioni che possedeva costruendo un castello che solo lui, Michael, avrebbe potuto confermare ma che, per motivi ignoti alla ragazza, non intendeva condividere lasciandola in balia della sua fervida immaginazione. Grace, quindi, aveva potuto unicamente cercare risposta nelle sue reazioni imparando dal modo in cui il corpo di lui s’irrigidiva ad esempio nella linea definita della mandibola o nei suoi occhi di ghiaccio che si facevano sfuggenti nel momento in cui toccava un nervo scoperto. Quelle, per lei, erano state le conferme che ad alta voce il Serpeverde non le aveva dato e che per questo l’avevano portata a temere, l’avevano portata a rompere quella che era la relazione che aveva in corso. Come i suoi amici le avevano detto, Nathan più pacatamente mentre Victoria con più decisione, non aveva senso che si martoriasse a quel modo. Il suo cuore aveva già scelto per lei, doveva solo trovare il coraggio di scegliere di percorrere quella strada e, quel coraggio, lo aveva trovato un paio di giorni prima.
    «Sono tornato.» Confermò la sua voce calda e bassa all’orecchio di lei che provocarono dei brividi alla base della sua schiena che la smossero nella sua stretta ancora più accalorata. «Te l’ho già detto: tornerò sempre da te.» I piedi della Grifondoro toccarono l’erba della tenuta e finalmente i loro occhi tornarono ad incontrarsi mentre il ragazzo la studiava. Non doveva avere un bellissimo aspetto, ne era conscia. In quei giorni, doveva ammetterlo, si era un po’ lasciata andare a causa delle sue preoccupazioni per cui aveva rinunciato anche al leggero velo di trucco che solitamente le incorniciava gli occhi cerulei lasciando intravedere l’alone violaceo di quelle notti insonni, insieme al colorito pallido e i capelli arruffati dal quantitativo di volte in cui le dita si erano infilate nella chioma per ravvivarne o spostarne la massa schiarita fino ai toni del miele dai raggi del sole. La mano di Michael si poggiò contro la sua guancia accarezzandola con dolcezza e Grace, di risposta, socchiuse gli occhi godendosi quel tocco che non avrebbe più fermato né allontanato. Ora era giusto. Qualsiasi cosa accadesse tra loro, adesso, era giusta.
    «Certo che sto bene» aprì gli occhi di scatto, allarmata, cercando le risposte nella sua espressione e le dita scivolarono ad avvolgere quella mano ancora premuta con la sua pelle. «Io sto bene, Mike» se andava ad escludersi dall’equazione l’instabilità della sua magia ma ora, lì, in quel preciso instante era calma, persino euforica e sicuramente più distesa e con una grossa fetta di preoccupazione in meno a gravarle sulle spalle. «Sto bene.» Ripeté ancora una volta fondendo i loro sguardi affinché quelle parole permeassero nell’animo tormentato del ragazzo. Fu quindi il suo turno di passarlo in rassegna. Per lui, chiaramente, non era stato lo stesso. Come aveva immaginato, l’ennesima conferma ai suoi timori. Stringendo ancora le sue dita nella dominante si sporse con la mancina accarezzando ciò che rimaneva sul suo viso, i segni di un graffio che andava rimarginandosi. Cosa gli era successo? Cosa gli avevano fatto? Erano stati i suoi? E se sì, perché? E David cosa ne pensava in merito? Grace lo aveva osservato in quei giorni ma tranne prendersi occhiatacce di tutta risposta non era riuscita a leggere nulla nella sua solita espressione vuota strafottente. Era complice anche lui di ciò che accadeva dietro le mura di casa? «E tu?» Con lo sguardo tornò a quel ghiaccio ricco di sfaccettature. «Come stai?» Le avrebbe detto la verità o, anche quella volta, si sarebbe nascosto dietro il silenzio o cercando di deviare la sua attenzione altrove?
    «Sono davvero contenta tu sia tornato» da me. Il peso che da una decina di giorni aveva preso residenza alla bocca del suo stomaco andrò sgretolandosi. «Uhm... Mi...» scostò lo sguardo verso l’orizzonte, arrossendo vistosamente. «Mi sei mancato anche tu» una breve pausa che accentuò ulteriormente il rossore sul viso, l’imbarazzo, prima che le dita si chiudessero a pugno colpendo debolmente, certo non con l’intenzione di fargli del male, la spalla. «Però potresti anche guardarlo quel cazzo di cellulare, eh! Cos’è lo tieni come fermacarte? O il vostro stupido orgoglio da maghi purosangue t’impedisce di usarlo» e che diamine! Tutti quei messaggi privi di risposta e persino di un segno che ne indicasse l’effettiva lettura da parte del ragazzo. «E no non te la cavi con “tornerò sempre da te”. Vaffanculo. Mi hai fatta crepare d’ansia!» Continuò quella ramanzina puntellando l’indice contro il suo petto. Non era propriamente arrabbiata ma quella era stata una sorta di risposta del suo corpo alla tensione finalmente sciolta. La sua bocca dava sfogo a tutta l’angoscia provata in quei giorni di distacco ma i suoi occhi, il suo viso arrossato dall’imbarazzo, chiedevano unicamente che lui l’abbracciasse nuovamente ponendo fine a quella che era stata una tortura per entrambi i ragazzi e Grace non aveva nemmeno idea di quanto realmente lo fosse stata per il Serpeverde. «Non farlo più», sussurrò quasi fosse una supplica.


    Edited by Dragonov - 16/7/2023, 17:32
     
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    Michael Harris

    ”MIKE!” Quel tono di voce. Quell’enfasi nel pronunciare il suo nome. Particolari che avevano contribuito a tenerlo in vita, nonostante non ci fosse più nulla in cui sperare. Il Michael che se ne stava lì, in piedi davanti a lei, non era altro che l’ombra di colui che aveva imparato a conoscere tra alti e bassi, durante quei mesi travagliati e ricchi di avvenimenti attraverso i quali era trapelato un lato inedito di quel ragazzo così difficile da trattare. Morto. Sepolto sotto le macerie della sua anima, strappata in mille pezzi da quel padre che non si era posto alcuno scrupolo nel vederlo tentennare davanti a quello che era diventato un condannato a morte ambulante. L’esitazione che aveva mostrato, d’altra parte, non era altro che un sintomo evidente del suo essere diverso. Lui non avrebbe mai potuto uccidere per il puro piacere di farlo. Lui non era come Dean e anche se, quest’ultimo, era riuscito a trascinare all’interno di quella spirale d’odio David beh, con lui sarebbe stata un’altra storia. Le punizioni corporali non sarebbero riuscite ad intaccare quella che era la sua ferrea morale anche se, dato oggettivo, si era lasciato andare a quel gesto sconsiderato solo per riuscire a guadagnare un minimo la fiducia di quel bastardo che aveva contribuito a metterlo al mondo. Si sentiva sporco. Fuori posto in quel luogo sacro, abitato da ragazzi e ragazze cresciuti in famiglie amorevoli, devoti al bene e privi di problematiche aventi a che fare con la morte. Posò il suo artico sguardo su quella che, per lui, sarebbe stata sempre una fragile ragazza da proteggere da sé stesso e da quelli come lui e si sforzò di sorridere, indossando ancora una volta quella maschera che l’avrebbe aiutato a proteggersi da quella orrenda realtà che, alla fine, l’aveva profondamente intaccato. Nei suoi occhi traspariva una sincera preoccupazione, mista allo stupore di poter nuovamente essere lì, in sua compagnia, dopo quel periodo di pausa forzata, per motivi a lei ignoti –e tali dovevano rimanere, per il suo bene-. La strinse tra le braccia, cercando di lavare via le sue colpe, come se Grace fosse quell’urgente terapia che l’avrebbe condotto alla completa guarigione. Una mera illusione anche se, quella ragazza, gli faceva bene allo spirito compromesso dall’oscurità soffocante che pervadeva ogni centimetro del suo essere. Uno spiraglio. Uno solo di luce proveniente dalla notizia che stesse bene e che quel lasso di tempo fosse passato, apparentemente, senza particolari problematiche. Tirò un sospiro di sollievo mentre la sua espressione rimase impassibile, dura, come se non avesse la minima idea di come affrontare quella che sarebbe sfociata in una discussione su ciò che quella gita fuori porta gli aveva offerto. E il dolore fu subito lì a ricordare l’accaduto. La gamba prese a pulsare, all’altezza della frattura inflittagli da quel bastardo ma, il Serpeverde, non si scompose sopportando in silenzio quella fitta tanto forte da mozzargli per un attimo il fiato. Strinse i denti, fino a quando la sensazione sfumò, permettendogli un minimo di rilassamento. La sua mano si trovava ancora adesa alla guancia delle giovane quando, improvvisamente, si accorse che forse quel suo atteggiamento sarebbe potuto divenire un campanello d’allarme capace di mettere a repentaglio la sua omertà. Vacillare non rientrava nei piani, semplicemente per il fatto che lasciarsi scivolare anche solo uno stralcio di verità avrebbe posto la parola fine a quel legame al quale teneva più della sua stessa vita. ”E tu?” Il cuore perse un battito, per poi riprendere la sua normale attività. ”Come stai?” Da quel momento in poi, tutto ciò che avrebbe riversato sulla Johnson sarebbe stata una menzogna o una mezza verità che, probabilmente, non sarebbe bastata a convincerla che tutto andasse nel verso giusto anche perché aveva notato il suo interesse per quel graffio posto sulla sua fronte, come a significare che qualche cosa era andato storto in tutta quella faccenda. “Sto bene.” Calcò la mano. “Tutto come sempre.” La sua tranquillità avrebbe potuto raggirare chiunque ma non lei. Al di là di quella calma apparente vi si nascondeva una battaglia interiore dalla quale sarebbe uscito sconfitto su ogni fronte eppure, con estrema arroganza, continuava a dissimulare dietro quell’appena accennata spavalderia l’impulso di abbandonare quel mondo, liberandosi così dai sensi di colpa dilanianti.
    “Sono contento di vederti, Grace!” L’affermazione scivolò via con una naturalezza disarmante e quando la ragazza voltò lo sguardo per mascherare il disagio, Mike, con un gesto delicato la reindirizzò, nuovamente, verso di lui, costringendola a specchiarsi nelle sue iridi chiare e bisognose di quel contatto visivo che gli era tanto mancato. “Davvero?” Obiettò, con un piccolo accenno di meraviglia a quell’affermazione. “Ti sono mancato?” Accarezzò la sua guancia, mentre lo sguardo, divenuto intenso, danzava dai suoi occhi alle sue labbra, cercando di trattenere quell’istinto che l’avrebbe portato ad azzardare ancora quel gesto che già una volta, in quel maledetto corridoio, non era stato, giustamente, apprezzato dalla giovane donna. Con la mano chiusa a pugno, Grace, gli sferrò un leggero pugno scherzoso. La sua colpa? Aver ignorato i messaggi inviati al suo numero di cellulare, durante la sua assenza. “Il mio stupido orgoglio da purosangue, dici? Potrebbe essere una scusa valida. Poco credibile, ma valida.” Si fermò a riflettere. Sarebbe potuta tornare utile come scusa, in diverse occasioni. “Devo chiamare il mio avvocato, Signorina Johnson?” Ironizzò, senza perdere di vista neanche un dettaglio del suo viso, decisamente troppo vicino per essere trascurato da colui che sentiva solo il desiderio di fare sue quelle labbra, come in quella serra, poco prima del loro ultimo incontro. ”E non te la cavi con tornerò sempre da te. Vaffanculo. Mi hai fatta crepare d’ansia!” Rimase serio, senza permettersi di arginare quel fiume in piena, lasciandole sfogare quello che, probabilmente da giorni, avrebbe voluto dirgli. “Sei ancora più bella quando ti arrabbi, sai?” Quella che sembrava una frase fatta, per lui significava molto di più. Mai nella vita si era ritrovato ad elargire complimenti di quel calibro a una ragazza. Non si era mai soffermato a ricercare quel particolare che potesse scuoterlo dalla sua apatia. Grace era stata la sua prima volta. “Ma, d’altra parte, detesto vederti incazzata.” Così come vederla preoccupata per lui. Non meritava un briciolo della sua attenzione eppure, da bravo egoista, non riusciva a lasciarla andare. Le prese il viso tra le mani, portandosi alla sua altezza, così da cercare di ostacolare quell’angoscia oramai libera di parlare al suo posto. “Hai ragione.” E ne aveva da vendere. Ancora una volta quel silenzio stampa obbligato, aveva posto un limite tra i due ragazzi ma, anche se le avesse promesso di non reiterare quella condotta, Mike, non aveva la certezza di poter mantenere la parola data. “Sono qui con te.” Ma non posso promettertelo. La sua vita era piombata nel buio. Lei era ciò che gli era rimasto di buono. La sua speranza. La sua motivazione per combattere quella guerra per ottenere la libertà che tanto bramava. “Dimmi. È successo qualche cosa, durante la mia assenza?” Era lì per lei. Al suo fianco. “O sono la sola causa del tuo turbamento?” In quel caso si trovava pronto a subire quell’interrogatorio massacrante che mille volte si era immaginato, costruendosi risposte che calzavano a pennello per spiegare ciò che aveva dovuto affrontare in quei giorni lontano da Hogwarts. “In questo caso, Grace, mi dispiace. Non ti farei mai del male volontariamente.” Posò le labbra sulla sua fronte, e lì rimase, come se si stesse nutrendo di quegli attimi che aveva modo di credere non sarebbero tornati mai più.
     
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    Non avrebbe voluto staccarsi, per nessuna ragione. Ferma allacciata al suo collo, stringendo avida quel corpo, quell’anima per la quale le sue notti erano passate insonni a causa della preoccupazione costante che aveva stanziato un peso all’imboccatura del suo stomaco. Ansia, paura. Del tutto immotivate razionalmente poiché, di concreto, non aveva reale motivo di temere per l’incolumità del giovane Serpeverde ma, il suo istinto, aveva cantato un’altra storia. Ora, stretta in quella presa si sentiva completa, tranquilla ed al suo posto.
    Michael l’adagiò lentamente portando i piedi della Grifondoro a toccare nuovamente il terreno e quello fu il momento per entrambi di passarsi in rassegna, d’analizzarsi, all’unisono, cercando nell’altro i segni che quella distanza avevano avuto nelle apparenze. Grace osservò il suo viso e lo sguardo cadde sulla linea rigida della mandibola indurita da qualcosa prima che il giovane, incontrando l’azzurro dei suoi occhi sciogliesse la muscolatura del viso. Qualcosa lo turbava, qualcosa che la Grifondoro non poteva prevedere e tantomeno immaginare. Le dita s’allungarono carezzando su quel volto ai suoi occhi bellissimo sfiorando con delicatezza quel taglio nuovo, in corso di rimarginazione, che ne sfregiava la bellezza. Cos’era successo? Un incidente? O, come le suggeriva l’istinto e i suoi timori, qualcosa era successo in quella famiglia sulla quale troneggiava un’ombra di mistero e riserbo portata avanti con stentata testardaggine dagli stessi membri appartenenti. “Cosa ti hanno fatto?” L’ombra della preoccupazione oscurò nuovamente per alcuni istanti lo sguardo ceruleo di lei prima di lasciare che le palpebre si chiudessero per bearsi del suo delicato tocco all’altezza della guancia.
    «Sto bene. Tutto come sempre.» E Grace ci avrebbe creduto. Eccome se lo avrebbe fatto, e avrebbe voluto davvero credere a quelle parole ma era allenata. Grace era allenata alle sue cazzate, non avesse imparato nel corso dei loro confronti a capire e leggere il modo in cui il Serpeverde mentiva e le stava mentendo, ancora, gli avrebbe creduto. Quanto avrebbe voluto credergli perché questo avrebbe voluto dire che si sbagliava e lei desiderava con ogni fibra del suo essere di sbagliarsi su ciò che ipotizzava nei confronti di quella famiglia.
    Fu la mandibola della Grifondoro, questa volta, quella ad irrigidirsi. Michael le aveva mentito spudoratamente ancora una volta. Distolse lo sguardo, voltando il viso e interrompendo quel contatto visivo. Socchiuse gli occhi stringendo le labbra. “Perché non ti fidi di me?” Avrebbe voluto chiedergli, avrebbe voluto insistere ma quello, ne era coscia, non era né il tempo né il momento. Era tornato ed era tornato da lei, questo era ciò che contava in quel momento. Ci sarebbe stato il tempo – sperava ignara lei – per ottenere quelle risposte che bramava.
    «Davvero? Ti sono mancato?» Il viso della Grifondoro arrossì ulteriormente quasi il suo stupore fungesse da ulteriore motivo d’imbarazzo. Mike non lo sapeva ancora ma erano liberi adesso, Grace era libera di poter sentire liberamente ciò che provava per lui e questo, alla luce del giorno, era… destabilizzante, faceva paura. Era libera. Le faceva paura dopo ciò che aveva fatto al Tassorosso era più terrorizzata che mai all’idea di ferire nuovamente qualcuno. Non avrebbe mai potuto perdonarsi di ferire anche Mike nonostante le belle parole di Nathan l’avessero in parte rincuorata su quel punto eppure, lei, si sentiva responsabile della felicità di qualcuno poiché erano sempre le sue azioni a determinare una conseguenza e se con Mars aveva finito per sbagliare, con Mike non avrebbe ripetuto quell’errore. Per cui sarebbe andata piano, per cui avrebbe coltivato con cura quanto ora avrebbero potuto costruire insieme se, il Serpeverde, fosse stato ancora della medesima idea iniziale con la quale si erano lasciati: attenderla.
    La mano schizzò rapida contro il petto del ragazzo a smorzare quella tensione che era andata formandosi nell’aria, a smorzare quello sguardo di lui che aveva lasciato intendere un desiderio ben preciso e che la ragazza avrebbe dannatamente condiviso non fosse stato per il suo istinto – di conservazione? – che immediatamente era andato attivandosi per preservarla seppur minando a quella che era la volontà d’entrambi. «'Fanculo» replicò mentre il sorriso innalzava gli angoli delle labbra scacciando via quello che era stato il malumore. Era tornato, non importava nulla di quanto successo. Era lì ed era lì per lei. «Magari sì, signor Harris. Non lo escludo...» e da lì si sfogò lasciando che un minimo di quella preoccupazione seppur celata dietro il sottile velo dell’ironia, arrivasse al Serpeverde rendendolo conscio di quanto ormai ci tenesse a lui per quanto il loro rapporto fino a quel momento fosse stato travagliato.
    «Sei ancora più bella quando ti arrabbi, sai?» Grace ammutolì arrossendo ancora e abbassando lo sguardo mentre il soffio di una risata lasciava la sua gola. Scosse il capo. Sempre il solito. Come riusciva a schivare la quelle accensioni di rabbia placandole con poche parole era un maestro.
    Le mani di Michael si poggiarono sulle sue guance ed il suo viso s’abbassò facendosi più vicino e mandando in tilt la frequenza cardiaca della Grifondoro il cui cuore saltò in gola per quell’attimo. L’avrebbe baciata? «Sono qui con te.» Il cuore perse un battito. «Rimani.» Replicò e quella semplice richiesta era colma d’un significato più ampio. Rimani qui, ora. Rimani per sempre o, semplicemente, scegli di rimanere sempre nella mia vita cosa che non era affatto da escludere ed il Serpeverde non l’aveva tenuta all’oscuro di quella decisione che in alcuni frangenti del loro – seppur breve – trascorso avevano potuto ostacolare mettendosi in mezzo le loro vite. Rimani con me, era quindi la richiesta che gli stava facendo, il cuore in gola e l’ansia di un possibile rifiuto o, forse peggio, l’ennesimo svicolo che il ragazzo avrebbe potuto presentarle.
    «Dimmi. È successo qualche cosa, durante la mia assenza? O sono la sola causa del tuo turbamento?» Prese fiato abbassando nonostante la salda presa delle sue mani, lo sguardo verso il basso. Come dirgli che la sua magia era stata parecchio irrequieta in quei giorni? La Grifondoro sapeva che era a causa del suo umore ma, come il ragazzo, non si sentiva pronta ad ammettere così ad alta voce quel problema che la turbava. Con Marshall lo aveva fatto e ciò che aveva ottenuto era stata una svalutazione del problema quasi, secondo il Tassorosso, esso non fosse possibile poiché la ragazza investita di un’aurea di magnificenza. La pensava ancora così adesso? Dopo che lo aveva lasciato quasi di punto in bianco senza addurre particolari motivazioni se non l’improvvisa incompatibilità nata tra i due? Pensava fosse ancora una delle più belle persone che avesse mai conosciuto. Il suo sguardo s’oscurò così come le spalle s’abbassarono per i sensi di colpa che ancora una volta tornarono ad investirla come una marea. «...Mi dispiace. Non ti farei mai del male volontariamente.» Il Serpeverde la strinse posando un bacio ricco di sentimento sulla fronte della giovane che si lasciò avvolgere stringendo a sua volta la presa contro il corpo di lui beandosi di quel contatto per quanto, forse, il ragazzo aveva male interpretato quell’ennesimo e repentino cambio d’umore.
    «Ehm... che ne dici se camminiamo un po’?» Propose una volta che quel naturale abbraccio si fu sciolto e l’occhio irrimediabilmente le cadde verso gli studenti che avevano preso a circolare – e stanziarsi – lì all’ingresso. A Grace non era mai piaciuto dar spettacolo anche se era conscia che quanto successo lì in quel momento non fosse proprio l’esempio di discrezione. Arrossì leggermente imbarazzata e intrecciò in un gesto naturale le dita nella mano del Serpeverde. Cos’era successo per cui?
    Vuoto.
    Sollevò le sopracciglia mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione piuttosto buffa ma che dentro di sé rimproverava per la ragazza per lo scarso interesse che aveva dimostrato nei confronti del mondo al di là della sua bolla. Quanto era stata egoista. «Mmm... Non sono stata molto attenta ai recenti gossip. Halley ha messo sotto la squadra in vista della finale. Per cui mi sono allenata molto.» Il che era vero. Aveva focalizzato tutte le sue energie nello sport per evitare che le scoppiasse la mente – o peggio la magia – a furia di torturarsi con i pensieri. «Ho trovato un nuovo cacciatore che mi aiuterà nel ruolo. Sembra davvero promettente per quanto Halley non sia ancora convinta al cento per cento ma non mi preoccupa, appena lo vedrà giocare si ricrederà.» Presto ci sarebbe stato il debutto in squadra di Nathan, questione di giorni. «Poi ci manca solo un portiere. Ma ti pare? Tutti pacco tirano ora che siamo alla fine!» Si voltò abbozzando un risolino, Mike si rendeva conto di quel bizzarro tentativo di smorzare la tensione? Aveva capito che quel modo di Grace di sproloquiare del nulla fosse dettato dal nervosismo? «E tu a casa?» Chiese ancora, questa volta lontani da orecchie indiscrete. «New York è sempre caotica anche in prossimità delle vacanze?» Cercò di dire qualcosa, avrebbe voluto insistere notando un’anomalia nella camminata del giovane, un leggero – perché il Serpeverde ostentava stoicamente naturalezza – principio di zoppia ma non sapeva se lui avrebbe accordato quella confidenza e Grace, dal canto suo, era così stanca di ricevere menzogne da parte sua. Era come se, un po’ alla volta, spezzassero il suo cuore. Perché non meritava la sua fiducia? Non riusciva a spiegarselo.
    «Devo dirti una cosa.» Sentenziò fermandosi e fermando l’andatura dell’altro stringendo anche la mancina nella presa. «L’ho fatto Mike. I-io l’ho fatto» quella cosa di cui parlammo nel laboratorio di pozioni «l’ho lasciato.» Prese un respiro e, lentamente, incontrò il suo sguardo.


    Edited by Dragonov - 23/7/2023, 20:05
     
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    Michael Harris

    Era riuscito a mantenere la sua parola. Era lì. Sano e salvo davanti a quello sguardo intenso; lo stesso che sembrava non aver perso la speranza di potersi ricongiungere con quello del Serpeverde il prima possibile. Ed eccoli. L’uno davanti all’altra, come se il tempo non fosse mai passato. Come se quella manciata di giorni non avessero contribuito a mutare radicalmente l’anima di un ragazzo che, dalla vita, non desiderava nient’altro che ordinarietà. Un’ambizione troppo grande, tanto da essere immediatamente smorzata da un destino infausto, ricolmo di eventi tragici, potenzialmente traumatici e pericolosi per la psiche di un ragazzo della sua età, la quale colpa stava solo nell’essere nato. Neanche l’aveva chiesto. Chi mai avrebbe voluto un padre come il suo, affetto da quella megalomania incontrollabile e una madre succube del volere malato del marito? Nessuno sano di mente. Così, nonostante fisicamente fosse lì, Michael, mentalmente si trovava proiettato ancora sul luogo di quell’efferato delitto, posto in essere in seguito ad un suo gesto sconsiderato ed estremamente egoista. Come aveva potuto pensare, anche solo per un attimo, che il suo piano potesse essere cosa buona e giusta? Lui si era preso la briga di sottrarre un padre a un figlio. Un marito a una moglie. Un figlio a dei genitori che, lentamente, sarebbero morti in seguito a quella notizia sconvolgente. Il suo cuore perse un battito e reggere il contatto visivo, iniziava ad essere complicato. Lei credeva in lui e il risultato? Quale era stato? La compromissione definitiva della fedina penale, fino a qualche giorno prima, immacolata. Aveva lottato con tutte le sue forze per acquisire quella moralità che, tra alti e bassi, lo aveva scosso dalla sua oscurità, estrapolandone ciò che lui definiva: decenza. Un essere umano decente. Né più, né meno. La sua ambizione a livello etico rimaneva ancorata a questo punto, per lui fondamentale per la sua crescita personale che nulla aveva a che vedere con il piano accademico –per quello andava fatto tutt’altro discorso-. Un fremito lo riportò, prepotentemente, alla realtà. Al qui ed ora che li vedeva coinvolti in un gioco senza regole, nell’intenzione di scorgere un qualche cosa che li aiutasse a comprendere di più sul lasso di tempo trascorso senza che poter vivere quella quotidianità che la scuola aveva concesso. Rispose alle sue domande con la tipica freddezza mostrata ogni qualvolta si trovava nella condizione di non poter, per nessuna ragione, dare voce a ciò che avrebbe voluto. Uno scialbo meccanismo di difesa così facile da smontare da assumere la classica nota imbarazzante. Stronzate su stronzate, rifilate colei che meno se lo meritava su quella dannatissima terra. Serrò la mascella, reprimendo a fatica il dolore che interessava non solo la gamba –oggetto delle attenzioni crudeli del padre- ma anche la sfera piscologica maggiormente colpita, le quali ferite non sarebbero guarite così rapidamente come quelle fisiche. Non poteva esserne certo ma, con il passare del tempo, il legame che intercorreva tra loro, sarebbe stato messo a dura prova dagli atteggiamenti lascivi, indifferenti e spesso supponenti volti a difendere sé stesso, Ma a quel punto? Cosa avrebbe fatto? Sarebbe davvero stato in grado di rivelare, fino all’ultimo segreto, tutta la verità riguardante la sua vera natura e quella dell’intera stirpe degli Harris? In ogni caso, molto probabilmente, l’avrebbe persa, semplificando la sua discesa negli inferi per occupare quel posto che già gli spettava di diritto. L’idea di perderla gli opprimeva il petto e, ora come non mai, si trovava ad un passo da quel triste epilogo capace di gettarlo in quel baratro che tanto temeva.
    ”Fanculo.” L’atmosfera si smorzò, restituendo una vaga sicurezza utile ai suoi tentativi di dissimulare quel malumore che, probabilmente, si sarebbe portato nella tomba. Assunse un’espressione interrogativa, inarcando il sopracciglio destro ma pronto a regalarle un sorrisetto ironico e giocoso. Uno sforzo davvero assurdo per lui che, al contrario, avvertiva un peso sulla coscienza così forte da togliere il fiato. Alzò le mani, simulando una resa bella e buona mentre l’ironia si sprecava per alleggerire quella tensione tenuta alta dalle troppe incognite che costellavano il mistero della sua partenza. Gli era mancata realmente e quella mancanza, inverosimilmente, aveva contribuito a tenerlo in vita, sopportando quelle violazioni che era stato costretto a subire a denti stretti per non soccombere malamente alla figura paterna. La osservò arrossire, dandogli l’opportunità di tralasciare per qualche istante le preoccupazioni lancinanti, aiutato dal contatto con la sua pelle. Un desiderio folle si sprigionò in lui, conducendolo in una sola direzione ma, a fatica, riuscì a darsi un contegno, convinto che non fosse il momento adatto per ribadire quali fossero le intenzioni nei suoi confronti. No. L’ardore l’aveva, già una volta, indotto a compiere un errore ed, ora, sentiva il bisogno di tutelarla da sé stesso, consapevole di essere la onte di ogni male per lei che, però, ancora una volta, riuscì a spiazzarlo con quella naturalezza disarmante facente parte del suo essere. ”Rimani.” Avrebbe voluto prometterlo con tutto sé stesso. La sua espressione spigolosa si fece più serena. “Farò del mio meglio, Grace!” Era tutto ciò che poteva offrire in quel frangente: il suo meglio. O, almeno, ciò che ne rimaneva. “Questo te lo posso promettere. Farò di tutto per rimanere.” Finché la minaccia fosse stata al di fuori delle mura di Hogwarts, non vi sarebbe stato alcun tipo di problema ma, in caso contrario, non avrebbe avuto esitazioni sul da farsi. A lei non sarebbe stato torto un capello, finché lui fosse stato in vita. Poco ma sicuro. Ribadì mentalmente il concetto esposto durante il confronto con David dove, con il cuore in mano, aveva ammesso di poter arrivare a scarificarsi. Niente di più vero. Un gesto altruistico che, prima di incontrare la Johnson, neanche aveva mai preso in considerazione. La lasciò libera dalla sua morsa, sciogliendo quell’abbraccio ricolmo di apprensione.
    Gli prese la mano, intrecciando le dita con le sue, in un gesto alquanto avventato per una persona discreta quale era. Poco male. Studenti curiosi iniziarono ad affacciarsi nei pressi del loro luogo di incontro e, per questo motivo, accettò l’invito a prendere parte ad una semi scampagnata che li avrebbero portati lontano da occhi indiscreti, pronti a nutrirsi di quel gossip da quattro soldi.
    Non capì come ma la discussione si spostò sul qudditch, regalando un po’ di sollievo e spensieratezza. “Halley, certo. Come sta?” Quella ragazza lo aveva letteralmente incenerito quando, la notte di Natale, si era ritrovata a dover fare a meno della compagnia dell’amica, già impegnata con lui. Tempi poco sospetti e poi, la stessa Wheeler, si era ficcata in un guaio peggiore di quello in cui era finita Grace. E quel guaio rispondeva al nome di David. Suo fratello. Un ragazzo senza cuore che, per qualche strano motivo, aveva il lusso di vantare su di sé le attenzioni di quella giovane donna ambiziosa ed intelligente. Un mistero che sarebbe rimasto irrisolto ma che, forse, avrebbe aiutato il sangue del suo sangue a riemergere dallo schifo che vendeva come normalità. Un’utopia, probabilmente ma la speranza è pur sempre l’ultima a morire. “Un nuovo cacciatore, eh!” Interessante. L’anno successivo, probabilmente, si sarebbero trovati contro e picchiare duro era una delle sue specialità. “Peccato, sai? Avrei voluto disputare la finale proprio contro di voi.” Peccato per le figure di merda che avevano investito i verde-argento, costretti a mettere una pietra sopra a quel campionato che li aveva visti sconfitti su ogni fronte. “I nostri capitani, l’uno contro l’altra.” Un mix esplosivo. Una bomba ad orologeria pronta ad esplodere quei due, se entrati in collisione. “Io contro di te.” Assottigliò gli occhi, lanciando quel guanto di sfida bello e buono, lasciando intendere che sarebbe stato davvero divertente assistere a quella competizione tra teste di serie. Tutto un sogno. “Sappiamo tutti come è andata. Io tifo per voi.” Per te. Reggere il gioco. Ecco cosa stava tentando di fare, così da non arginare il tentativo di Grace di mascherare il nervosismo.
    ”E tu a casa?” La domanda lo colse in fallo ma scelse deliberatamente di non inciampare in quelle reazioni che avrebbero sollevato troppe domande. “Stanno tutti bene.” Tutti tranne me. “New York.” Una gran bella città ma la contea nel quale era vissuto non aveva nulla a che fare con il panorama di Central Park, gremito di famigliole felici a spasso. “Un giorno, se vorrai, ti ci porterò, così ti potrai rendere conto di quanto sia caotica, soprattutto in prossimità delle vacanze. Non ci sei mai stata, vero?” Come se lui avesse avuto il tempo materiale per esplorare la Grande Mela. “Rimpiangeresti la cara e vecchia Inghilterra. Puoi Credermi.” Nella sua tranquillità e sicurezza.
    La gamba cedette per un solo, fottuto, istante ma quel tanto che bastava per attirare l’attenzione su di sé. Le sue iridi algide volteggiarono su di lei, nella speranza che non ponesse quesiti al quale porre rimedio con una bugia ma, quella preoccupazione, svanì quado avvertì che, la Johnson, arrestò la camminata. Si voltò per sincerarsi che tutto volgesse per il meglio, fermandosi a sua volta. ”Devo dirti una cosa…” Un’onda anomala si infranse sulla barriera fatta di ostentata sicurezza, rimescolando le carte in tavola. “Dimmi.” Un sussurro flebile. Non le stava dando il permesso. ”L’ho fatto Mike. I-io l’ho fatto.” Un attimo di confusione e poi tutto fu chiaro e limpido, davanti a lui. ”L’ho lasciato.” Non proferì parola, rimanendo immobile sul posto, ad elaborare una strategia che gli avrebbe permesso di non risultare fuori luogo, dopo quella notizia. Si voltò, ritrovandosi ancora così vicino a lei da potersi specchiare nei suoi occhi pervasi dalla sua solita autenticità. Liberò le mani e lentamente, iniziarono a farsi strada verso il suo viso, accarezzandolo dolcemente, prima di piegare la testa di lato. I dettagli lo convinsero. Un passo verso di lei e la distanza fu annullata del tutto, così come doveva essere. Si sporse e, con delicatezza, posò le sue labbra su quelle rosee della Grifondoro, schiudendole con la lingua, per poi lasciarsi andare a quello che era un bacio. Il più sentito che avesse mai sperimentato sulla sua pelle, cullato dalla speranza di non essere respinto. Non più.
     
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    «Farò del mio meglio, Grace! Questo te lo posso promettere. Farò di tutto per rimanere.» La Grifondoro socchiuse gli occhi che, presi dall’emozione, cominciarono a bruciare quasi stessero andando a fuoco. Per qualcun altro quelle parole non sarebbero state abbastanza ma per la giovane, dopo tutta quell’attesa dopo tutta quella preoccupazione, rappresentavano tutto. Era esattamente ciò che voleva cosa il suo cuore chiedeva: che lui rimanesse e che loro avessero tempo. Era indifferente, in fin dei conti il fine, dopo tutto quell’irrazionale timore provato ciò che la Johnson chiedeva era solo che lui stesse bene. Che fosse con lei o senza di lei. Chiaro, con lei sarebbe stato meglio e sarebbe anche stata una naturale risposta egoista di una persona che prova dei sentimenti più o meno forti rispetto ad un’amicizia ma il bene che la ragazza sentiva per quel giovano uomo, l’affezione che provava nei suoi riguardi le permettevano in quel momento persino d’accettare che lui potesse esistere senza lei. Tutto le sarebbe andato bene dopo quanto aveva passato costruendosi immensi castelli per aria fatti unicamente del costrutto delle sue fantasie. Aveva esagerato? Probabilmente ma il suo istinto le impediva di desistere e proprio per questo ascoltare quelle parole fu come ricevere una carezza, quasi lui le avesse fatto la più bella dichiarazione di cui fosse stato capace. Migliore persino delle volte in cui le aveva rovesciato addosso ciò che provava per lei. Provava ancora questo? Il corpo, i gesti, le parole dicevano a Grace di sì ma se questa fosse stata solo mera gentilezza? Educazione? Tremava all’idea ma lo avrebbe accettato, a fatica ma lo avrebbe accettato.
    Le mani della Grifondoro gli cinsero la vita risalendo leggere lungo la sua schiena ancorandosi alle spalle forti prima di sfiorare con le labbra il suo petto. Non lo baciò, non lì, non in quel frangente così pubblico che levava loro la naturalezza di ogni gesto poiché le spie di quel dannato giornalino si nascondevano in ogni angolo e non aspettavano altro che sbattere in prima pagina quell’assurda notizia magari ricamando ed ingigantendo quello che ai loro occhi ignari doveva rappresentare la trama di una sciocca soap-opera ricca di un dramma che nella realtà dei fatti nessuno dei protagonisti coinvolti aveva richiesto. Grace di certo non lo aveva chiesto questo quando, trattenendo le lacrime, aveva sperato con tutta sé stessa che qualcuno la invitasse per il ballo della vigilia di Natale. S’era sentita invisibile, insicura quando tutte le sue amiche e compagne di stanza avevano ricevuto il fatidico invito e lei nulla, niente fino all’ultimo quando proprio il Serpeverde – lì di fronte a lei – aveva azzardato quella mossa durante l’ora di studio in biblioteca. Quell’invito aveva rappresentato tutto per lei ma aveva anche rappresentato l’inizio della fine. Non aveva chiesto tutto quel tormento, non aveva chiesto quella confusione quell’impasse che aveva caratterizzato l’ultimo mese. Lei voleva solo innamorarsi e come tutte le ragazzine della sua età sperare d’essere ricambiata dalla cotta sulla quale aveva messo gli occhi. Non c’era spazio per sotterfugi, menzogne o non detti. Lei aveva desiderato e ancora desiderava nel profondo di sé qualcosa di puro, di semplice ma a quanto sembrava aveva peccato d’avarizia con quella semplice richiesta pagandone amaramente le conseguenze. Non voleva più sbagliare, non voleva più ferire. Doveva rompere quel circolo vizioso e memore di quella lezione questa volta – se ci fosse stata la possibilità, se Michael gliene avesse data una – avrebbe compiuto un passo alla volta, lentamente e con calma misurando le proprie emozioni per quanto questo per lei non fosse affatto semplice. Grace era sempre stata una ragazza che andava da zero a cento senza vie di mezzo. S’affezionava irrimediabilmente amando e volendo bene incondizionatamente senza però risparmiarsi con la sincerità se questa non avesse ferito inutilmente l’altra persona per la sua intrinseca cattiveria gratuita. Proprio per questo motivo aveva evitato – anche perché se ne vergognava terribilmente – d’infierire con Marshall rivelandogli quale fosse stato l’evento scatenante di quel tracollo, mettendolo al corrente dei fatti avvenuti nelle serre, di quanto era successo nascosti dalla folta vegetazione del labirinto. Da lì l’escalation era stata rapida – in fin dei conti – e per per niente affatto indolore.
    Lentamente e traendo un profondo respiro pregno del suo odore, Grace si staccò da lui e, un po’ imbarazzata, dagli occhi dei curiosi lì radunatisi propose di allontanarsi magari compiendo alcuni passi alla rinfusa attraverso l’immensa tenuta del castello. Senza pensarci, così, naturalmente, intrecciò le dita a quelle del Serpeverde e cercando d’ignorare la camminata tutt’altro che fluida dell’altro, cercò d’imbastire al volo una conversazione dai toni più frivoli che le avrebbe permesso – sperava – di mettere a tacere quelle domande che prepotentemente, guardandolo, erano andate ad affollarsi nella sua mente.
    «Halley, certo. Come sta?» Eh, bella domanda. La Wheeler, al solito, esternava una sicurezza invidiabile senza contare che la faccia che presentava al mondo era sempre quella di disprezzo nei confronti del pericolo, delle situazioni. Lei andava avanti a prescindere da tutto, come una macchina da guerra faceva tutto ciò che le veniva richiesto. Tipo prendere in mano le redini della squadra dopo l’ennesimo forfait tirato anche dal capitano in carica. La invidiava, Grace avrebbe voluto essere un po’ come lei in queste situazioni che la vedevano invece raggomitolarsi in posizione fetale a rimuginare all’infinito sulle situazioni. «Non lo da a vedere ma sento che qualcosa la preoccupa. Non mi ha ancora detto cosa ma confido di farla cantare come un usignolo quest’estate...» a buon intenditor poche parole. Se Harris pensava di continuare a rifilarle stronzate su stronzate pensando di farla fessa e contenta dopo un complimento randomico gettato con il puro scopo di sfiammarla si sbagliava di grosso. Adesso poteva crogiolarsi del fatto che la felicità sulle sue sorti fosse maggiore rispetto al fastidio provato per le menzogne altrimenti non avrebbe mancato d’incalzarlo senza se e senza ma. Se la situazione fosse evoluta come sperava accadesse, Grace sapeva si sarebbe presto trovata di fronte un nuovo bivio, un nuovo ostacolo e forse questa volta persino di maggiore gravità rispetto a quanto c’era stato fino a quel momento. Se Michael voleva davvero ci fosse un “noi” avrebbe dovuto cominciare a smetterla di omettere e avrebbe dovuto cominciare – almeno – ad investirla del beneficio del dubbio.
    «Sì, Nathan Knox. Lo hai conosciuto alla lezione di Cura. È il ragazzo che sta facendo orientamento in vista del prossimo anno. È un vero portento nonostante non abbia mai giocato a Quidditch. È anche lui americano e mi ha raccontato che lì giocava a Quodpot» l’espressione mutò corrucciandosi per un secondo al pensiero di quella pluffa che da un momento all’altro poteva esplodere in mano – o in faccia – ai giocatori. Poi il quidditch era barbaro... tsk! Quella roba poteva fare danni seri! Tipo farti partire la faccia, davvero si mettevano a paragone le due cose?
    «Peccato, sai? Avrei voluto disputare la finale proprio contro di voi.» Grace si voltò, il viso inclinato mentre un placido sorriso andava delineandosi sulle labbra rosee quanto carnose. Quanto avrebbe voluto anche lei finire contro la sua squadra, testarli e dargli filo da torcere per quanto non fosse del tutto sicura che avrebbe voluto trovarsi a dover rubare palla ad un colosso come il Dragonov o a rischiare l’osso del collo per un bolide tirato proprio dal di lui fratello. Non si stavano simpatici, era chiaro e lampante e qualcosa le diceva che David non avrebbe fatto nessuno sconto di pena con lei, anzi, se possibile era più probabile che le si sarebbe accanito contro. «I nostri capitani, l’uno contro l’altra.» Ridacchiò immaginando Halley che imprecava come solo lei sapeva fare spedendo un bolide proprio in faccia al maggiore tra i due fratelli. «Io contro di te.» Ecco dove voleva andare a parare e Grace non poteva negare d’aver fantasticato su quell’eventuale possibile scontro. «Sappiamo entrambi che vincerei io Harris, sono molto più brava di te» cinguettò salvo poi aprirsi in un largo sorriso ed una risata. Proprio non le riusciva la parte della superba anche se, quelle parole, erano sostenute da un fondo di verità non indifferente: Serpeverde non era riuscita a battere Tassorosso nel girone d’eliminazione diretta del campionato ma a lei non importava. «Gentile da parte tua. Vedrò di non rendere vana la tua presenza» segnerò per te.
    Incapace di mantenere quella linea di forzata spensieratezza – andiamo Grace potevi rimanere sul Quidditch! – azzardò chiedendogli nuovamente dell’America in un goffo tentativo di strappare qualche blanda informazione ma l’unica cosa che non mancò di notare fu come il suo sguardò si divincolò dal suo ed i suoi occhi, solitamente cristallini come il ghiaccio del polo nord, furono attraversati da una nube temporalesca. Questione di attimi prima che lui sviasse e distogliesse l’attenzione da quel quesito. «No», disse in un soffio confermando il suo interrogativo retorico. «Addirittura. Anche Londra è bella incasinata eh!» Soprattutto in inverno in prossimità del Natale. Tutta Europa pareva riversarsi lì presa dalla “London calling”. «M-mi piacerebbe davvero tanto vedere New York... con te» si schiarì la gola mentre un imbarazzo crescente montava insieme all’irrequietezza. Era il momento. Grace socchiuse gli occhi, espirò ed ignorò l’ennesimo incespicare nella camminata del Serpeverde. Era difficile lasciarsi scivolare addosso quella visione di sofferenza rimanendo impotente di fronte alla testardaggine dimostrata dal ragazzo che – lo sapeva – avrebbe stoicamente negato anche di fronte all’evidenza. Si fermò e prendendo un profondo respiro, attraverso la stretta che la legava al ragazzo, lo tirò gentilmente chiedendogli implicitamente di voltarsi e fronteggiarla lì faccia a faccia. «Devo dirti una cosa» si era sentita pronunciare mentre il cuore, in un balzo, le saliva battendole prepotentemente in gola rendendo qualsiasi altro suono superfluo. E allora glielo disse rapida, di getto, quasi che l’attesa avrebbe potuto farle cambiare idea: aveva lasciato Marshall. Tralasciò il fatto che, a seguito di quell’evento, il ragazzo aveva lasciato la scuola. Aaron le aveva gettato in faccia che lo aveva fatto per la carriera, per l’imminente tour che sarebbe partito in vista dell’estate e “non di certo per una ragazzina capricciosa e che non sa che cazzo vuole, come te” ma Grace era convinta che, se così fosse stato, Mars gliene avrebbe parlato così come le aveva parlato – e procurato i biglietti – per il festival di Glastonbury. Invece aveva lasciato la scuola dal giorno alla notte e la Grifondoro non aveva potuto fare a meno di addossarsi la colpa anche di questo.
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    Sollevò lo sguardo, ansiosa e irrequieta cercando immediatamente nelle iridi di lui la reazione. Michael rimase spiazzato e per qualche istante non si mosse. Un frazione di secondo prima che le mani si liberassero della stretta della Grifondoro per avanzare di un passo e cercare immediatamente il suo viso. Michael l’accarezzò con dolcezza, studiandone i lineamenti e Grace, incapace di leggere quel gesto, rimase immobile, senza fiato, incapace di pensare o anche solo di sperare. Bloccata in quell’attesa che gli avrebbe rivelato le sue intenzioni. Poi Michael fece un passo e finalmente la sua bocca fu su quella della Grifondoro premendosi lenta, incerta della sua reazione ma solo inizialmente poiché quando le dita di lei si fecero strada sulla sua camicia tirandone i lembi, aggrappandosi ad essa, la risposta fu chiara. Non c’era più nulla a fermarli, nulla in lei lo avrebbe più respinto o allontanato. Avrebbe lottato per “loro” per farla funzionare a prescindere dai suoi silenzi, dalle sue menzogne. Ora erano liberi, finalmente liberi di viversi.


    CITAZIONE
    CONCLUSA.


    Edited by Dragonov - 30/7/2023, 11:16
     
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6 replies since 10/7/2023, 21:50   152 views
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