Feelin' insane

24 Dicembre / Axel

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  1. Dragonov
     
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    Cadaveri. Quanti ne aveva visti? E quanti erano tali per mano sua? Un numero alto, fin troppo, quello che andava macchiando la fedina penale e l’anima del mannaro. Inizialmente, Axel, ne aveva tenuto il conto, una lista mentale, che andava ripetendosi notte dopo notte rientrando dalle missioni in cui il padrino lo spediva prescindere da quella che era la sua volontà. Non aveva mai avuto scelta. Era cominciato tutto il 2 novembre del 2017. Ricordava perfettamente la data, poiché, molto banalmente, era la data in cui compiva la maggiore età nel mondo magico. La data in cui, allo scoccare della mezzanotte, la traccia si sarebbe dissipata da lui rendendolo a tutti gli effetti un adulto agli occhi della società quando adulto non lo era affatto. Era soltanto un ragazzo, pieno di problemi caratteriali e comportamentali con una vissuto difficile alle spalle ma da quel momento, quanto quella vita si sarebbe intricata ancor più, non avrebbe nemmeno lontanamente potuto immaginarlo. Tutto sarebbe cambiato. Lui per primo.
    La traccia che fino a quel momento aveva monitorato qualsiasi sua mossa allo scoccare della mezzanotte era svanita. Axel non s’era sentito diverso, immaginava una qualche aura mistica che andasse a scomparire ma invece nulla di tutto questo era capitato. La mezzanotte era scoccata e, come un calcio in culo (non propriamente metaforico), il padrino gli aveva dato il ben servito alludendo al fatto che i suoi giorni da “inutile parassita” fossero conclusi lanciandolo nella sua prima missione in solitaria, contro il suo primo omicidio...
    Un parassita lo aveva definito Ethan. Come se davvero lo fosse mai stato! Certo, non aveva potuto compiere nulla a livello magico fino a quel momento ma, fisicamente, era stato lo schiavetto perfetto. La forza fisica, da sempre punta di diamante tra le sue caratteristiche, lo rendeva adatto a qualsiasi tipologia di lavoro soprattutto se usurante in quanto la sua parte animale proteggeva costantemente il suo involucro, il suo tramite, risanando ciò che lo sforzo avrebbe potuto storpiare, ciò che le privazioni, la tortura e l’abuso danneggiavano in lui. Ciò che i combattimenti in cui incappava avrebbero potuto togliergli. Infinite volte, era tornato in fin di vita o quasi dal padrino e lui, con uno sbuffo, aveva curato quelle ferito che ora drappeggiavano una mappa lungo il suo busto.
    Aveva ucciso una prima, una seconda, una terza volta e così via fino a perderne il conto non tanto per la numerica (seppur alta) quanto innalzando un meccanismo di protezione messo in atto dalla sua mente per mantenere il controllo di sé stesso dove qualcun altro, al posto suo, sarebbe scivolato nel baratro della follia. “È per auto difesa” si giustificava. Mors tua vita mea. Doveva farlo se voleva tornare a casa e seppur la vita che viveva fosse a tratti troppo difficile era troppo codardo per porre fine a quelle sofferenze poiché ciò avrebbe rappresentato una scappatoia nei confronti dei suoi peccati. Aveva ucciso, primo fra tutti, suo fratello e con esso sé stesso. Aveva metaforicamente ucciso la sua famiglia con quell’atto segnando nelle sue convinzioni quello che era il suo destino. Doveva pagare. Per cui, pur di salvarsi la pelle, pur di mandare avanti quell’esistenza che non sapeva più se valesse la pena vivere, uccideva. Non si faceva scrupoli. Era lui o l’altro, il suo avversario. Banale, semplice ma era la più totale verità. Non aveva altra scelta se non scegliere di togliere quella vita, d’elevarsi a giudice e boia nella stessa figura ed il tutto pur di salvare sé stesso. Morire sarebbe stata una scappatoia troppo semplice che non giudicava di meritare. Ed ora, tutto quel sangue, tutta quella pena, erano diventati unicamente un bagaglio d’esperienza che lo rendeva indifferente alla natura intrinseca dell’omicidio stesso. Axel guardava a quei corpi con distacco. Dissociandosi da chi essi rappresentassero davvero. Chi erano stati. Era da un po’ che Ethan non lo convocava, dalla questione della nipote. Probabilmente la follia di quest’ultima e le vicissitudini legate al contratto, lo stavano tenendo più occupato del solito.
    Ma quella notte la morte lo richiamò a sé presentandosi prepotentemente a rompere quel momento di pace. La sua vita era un’unione di momenti. Aveva espirato impercettibilmente mentre la fredda lucidità della sua mente calcolatrice, abituata a quel tipo di situazioni, lo estraniava da ogni umana emozione. Pro e contro.
    La morte della professoressa Lovecraft pose fine a quell’intervallo.
    Axel aveva guardato al volto della donna che fino a pochi giorni prima aveva persino trovato attraente, inspiegabilmente leggendovi il nulla. La morte le aveva sfigurato i lineamenti ed ora, per il mannaro, era stato possibile riconoscere quella tonalità spenta, opaca, quel grigiore lasciato dalla privazione della vita. Brutta.
    Non s’era lasciato toccare dalla vicenda e subito era passato alla lettura pragmatica di quella situazione. Cosa fare. Come muoversi. Chi proteggere. Freya.
    L’aveva tirata a sé costringendosi a muoversi, ad abbandonare quella sala soffocata di persone nel panico per trascinarli lì, nelle segrete di Serpeverde, dove avrebbero riorganizzato le fila e dove le ordinò di ammettere se era presente un suo reale coinvolgimento. La mannara lo osservò di rimando, eretta e fiera nonostante il suo sguardo, la sua espressione, fossero attraversati da un lampo di delusione. Non si aspettava quel tipo di trattamento da lui.
    «Pensi che avrei potuto farlo?» Lo incalzò con un punta che percepì come sarcasmo. Lei forse no ma lui, se gli fosse stato ordinato . Era questa la differenza che intercorreva tra loro e dal modo in cui si pose successivamente e dal linguaggio non verbale messo in atto dal suo corpo, il Dragonov, intuì quella certezza. Eppure, nonostante l’altra si aspettasse una parola da lui o un qualsiasi segno di supporto da parte sua il bulgaro non si mosse, non emise fiato continuando ad attendere, freddo, la sua risposta:
    «No, Axel. Non sono un’assassina.» L’aria tra loro si caricò della delusione dell’altra ma ancora una volta il moro la bypassò per concentrarsi sui punti focali di quella questione: non era stata lei, non volontariamente quantomeno per cui, adesso, doveva escludere il coinvolgimento di possibili terze parti.
    «Contattata per... ma che stai dicendo?» I taglienti occhi verdi continuarono ad inchiodarla con la stessa intensità, la stessa autorità fino a che lei, esasperata non vuotò il sacco passandogli poi la fiala dal luogo in cui era stata custodita fino a quell’attimo.
    «Dovevo chiedertelo» disse inespressivo, come se la questione fosse di poco conto. Come se non l’avesse ferità in quel modo fino a quel momento. Come se quelle parole potessero giustificare e cancellare la delusione che aveva letto in quei limpidi occhi color giada e come se quelle affermazioni non avessero potuto essere il frutto di una recita ad arte. Il suo era un atteggiamento arrogante, presuntuoso per certi versi ma il suo istinto e la sua esperienza lo aiutavano a riconoscere un bugiardo così come i piccoli segnali impercettibili all’occhio e all’orecchio umano. Lui però non era umano, non del tutto, ed il suo padrino lo aveva allenato ad usare quei poteri, quella sua natura tanto odiata per trasformarlo in una macchina della verità sufficientemente affidabile. Freya non stava mentendo.
    «Che merda!» Commentò finalmente rompendo quella rigidità mentre s’infilava una mano nei folti capelli scuri abbassandola fino a premersi per lunghi attimi sulle palpebre. Il mal di testa tornò a manifestare la sua ingombrante presenza ed insieme ad essa l’agitazione tornò a picchiare in petto alla mannara accelerandole il cuore e, con esso, il picco d’adrenalina che la mandò in panico.
    «Freya, Freya.» S’alzò lasciando andare la fiala sul letto, incustodita, mentre a grandi falcate decise copriva la distanza che lo separava dalla mannara. Le circondò con attenta delicatezza il viso mentre tutto in lei collassava nel panico. «Ssssh, ssh.» Le carezzò il viso costringendola a sollevarlo per incontrare i suoi calmi occhi verdi nel tentativo d’infonderle parte di quella lucidità andata perduta.
    «E perché no? Non hai fatto niente.» Scrollò le spalle. Non poteva fottergliene di meno degli altri e di ciò che pensavano ma doveva essere pronta.
    «Non sei un mostro, okay?» Continuò a fissarla attendendo un cenno da parte sua. «Non lo sei. Sei stata incastrata o usata in questa storia. Ciò che dovrai fare adesso sarà assolutamente collaborare con gli... auror. Gli consegnerai quella roba. Niente giochini, Freya. Niente cazzate. Dagli ciò che vogliono. Mostrati ingenua, mostrati innocente» ciò che era, «non dargli modo di dubitare di te. Levati la spavalderia.» Era una donna, il sesso debole per antonomasia, per lei sarebbe stato semplice sbattere le ciglia allargando gli occhioni. Ed era bella. Chiunque era più propenso di fronte al bello, più predisposto ad ascoltare. L’avrebbero lasciata in pace se lei gli avesse servito l’immagine della ragazzina in difficoltà. «Puoi farlo?» Le domandò ma in quella richiesta era sepolto un ulteriore comando, un dovere: devi farlo.
    Attese la sua replica.
     
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