Cold as ice

Daphne

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    La quantità d’individui incapaci di dispensare stimoli, in quel castello, si sprecava. Quasi nessuno riusciva a suscitare il lui un interesse tale da spingerlo a desiderare l’approfondimento di un eventuale rapporto amicale. Freya era stata l’unica in grado di smuoverlo dalla sua staticità, mascherata da una freddezza che indicava tacitamente la sua poca inclinazione ad aprirsi con il prossimo. Un limite per chi, come lui, si trovava costretto a vivere a stretto contatto con centinaia di personalità diverse. Alcune affini. Altre meno. In ogni caso, per Mike, sfruttare l’opportunità offerta dalla vita mondana del castello, non rientrava affatto nelle sue priorità. Prediligeva la solitudine. Il silenzio. La quiete mentale che lo aiutava a mettere in atto quei meccanismi utili a ricercare una soluzione ai suoi problemi. Peccato che spesso, questo suo desiderio, fosse impossibile da mettere in pratica. Da quando aveva messo piede al castello, la sua vita aveva subito una drastica svolta. Decini di avvenimenti, uno dopo l’altro, avevano segnato il suo forzato cambiamento, non solo trasformandolo in qualche cosa che mai avrebbe voluto essere ma, allo stesso tempo, presentandogli una quotidianità che era costretto a vivere contro la sua volontà. Sulle sue spalle vi era un fardello enorme. I sensi di colpa lo attanagliavano ad ogni ora del giorno e della notte, impedendogli addirittura di prendere sonno. Sì. Cadere tra le braccia di Morfeo, oramai, poteva essere paragonato ad un’odissea vera e propria. Ogni qualvolta che le sue palpebre tentavano di sopirsi, immediatamente, davanti ai suoi occhi azzurri, vi si parava il volto sofferente dell’uomo al quale aveva tolto la vita. Un marito. Un padre. Un innocente che, per una serie di sfortunati eventi, non aveva mai potuto fare ritorno al focolare, dalla sua famiglia. Quante volte aveva desiderato morire in seguito al suo gesto? Tante. Troppe. Neanche se ne ricordava più. Avrebbe voluto rimuovere quella scena. Cancellare tutto con un colpo di spugna ma, finché sarebbe rimasto in quel mondo, il minore dei fratelli Harris, avrebbe lottato per la sua redenzione, con tutte le sue forze. Un risultato per niente scontato. Cambiare il passato, comunque, non rientrava nelle sue capacità. Accettarsi per ciò che era? Ancora più difficile. Spostò lo sguardo, posandolo sul letto alla sua destra dove, beatamente addormentato, giaceva suo fratello, ignaro dello stato d’animo che affliggeva il biondo. Meglio così. Non avrebbe sopportato ulteriormente le cazzate propinate per giustificare atti che, per natura, non sarebbero potuti essere giustificati neanche in un mondo parallelo. Sbuffò e tornò ad osservare il soffitto, rapito dai suoi pensieri che, man mano, presero a rivolgersi verso colei che, in tutta quella merda, riusciva con la sua sola presenza a tenerlo a galla. Strano ma vero. Un potere infinito che neanche immaginava di possedere. Le sue labbra si piegarono quel tanto che bastava da rivelare la sua capacità di sorridere. Difficile ma neanche tanto quando al centro della sua attenzione vi era quella ragazzina così determinata da averlo catturato grazie alla sua bontà d’animo. Gli aveva dimostrato più del dovuto e, questo, per il verde-argento, significava tutto. Si mise a sedere. Lentamente, cercando di evitare qualsiasi tipo di rumore, anche il più impercettibile, così da lasciare David nel suo mondo, lì, dove non avrebbe potuto sparare sentenze non richieste e, soprattutto, dove non si sarebbe cimentato nei suoi teatrini volti a cosa? A dimostrare di quanto l’avesse lungo rispetto agli altri? Oh, sì. Le voci erano girate ed anche in fretta. Per quanto reputasse la sua condotta deplorevole e, per certi versi, idiota, si era ripromesso di farsi gli affari suoi, lasciando colui che portava il suo stesso cognome in balia degli eventi e se fosse naufragato? Beh, peggio per lui. L’esperienza gli avrebbe insegnato a dare un taglio al suo vivere le situazioni di petto, senza mettere in moto quel cervello che, fino a prova contraria, si trovava ancora impacchettato nella sua scatola cranica, in attesa che giungesse il giorno in cui, dopo ripetute inculate da parte della vita, si decidesse a dargli una spolverata. Così, per metterlo in funzione una volta per tutte. Si tirò a lucido e dopo aver risistemato a dovere il suo letto, decise di prendere una boccata d’aria. Rapido e indolore. La sua fuga andò liscia. Nessuno si azzardò a interporsi sul suo cammino. La strada spianata. I corridoi liberi da fonti di disturbo. Tutti elementi che concorrevano a renderlo un bimbo felice. Fece mente locale ed, una volta lasciatosi alle spalle il grande portone di legno che conduceva all’esterno, imboccò il sentiero che l’avrebbe condotto dritto in uno dei luoghi più pacifici della tenuta che abbracciava Hogwarts: il lago nero. Dopo il falò non ci aveva più messo piede. Le occasioni erano state pressoché nulle e il clima oramai invernale, si era rivelato un deterrente potentissimo, lasciando che la sedentarietà accanto al camino, vincesse a mani basse. Nella mano destra stringeva un libro mentre, l’altra, si trovava comodamente riposta nella tasca, alla ricerca di un tepore che, di lì a poco, sarebbe andato perduto definitivamente. Iniziò a pentirsi. Forse avrebbe fatto meglio a rimanere al sicuro, dove sarebbe riuscito a leggere il suo romanzo, senza rischiare di accaparrarsi un malanno. In quanto mannaro, però, non avrebbe sofferto più di tanto. Insomma, un pro della sua condizione che non disdegnava affatto. Che potesse essere vero che non tutti i mali si presentavano per nuocere. Cazzate. Davvero. Ancora non era riuscito ad accettare la sua vera natura ma, in fondo, non vi era alcuna alternativa a meno che, preso il coraggio a due mani, avesse preso l’insana decisione di porre fine ai suoi giorni. Stupido e assurdo. Sentiva di non aver finito. Dal mantello tirò fuori il suo libro e, con facilità, recuperò il segno, dirigendosi nel punto in cui, solitamente, avrebbe fatto sosta per viversi quei capitoli da protagonista. Lontano da tutto e da tutti. Solo lui e la lettura, uno dei suoi gratificanti passatempi. Qualche passo distratto e, finalmente, raggiunse la sua meta ma, proprio quel giorno, qualche cosa disturbava l’armonia e la perfezione alla quale era abituato. Una ragazza aveva preso il suo posto e, oramai, si trovava a lei troppo vicino per passare inosservato e togliere il disturbo. Solo in un secondo momento, terminate i suoi tentativi mentali di costruirsi una via di fuga, si rese conto di conoscerla. “Andersen.” Un cenno del capo indicò il suo distaccato saluto. “Non ti preoccupare!” Cercò di rassicurare la ragazza. “Tolgo il disturbo.” Così da facilitarle il compito di tornare a rivolgere la sua attenzione a qualsiasi cosa stesse facendo. In fondo si trattava di un luogo pubblico. Poco trafficato, sì. Ma pur sempre alla portata di tutti. Nel bene e nel male.


    Edited by Harris Jr. - 8/12/2023, 11:28
     
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    Seduta sulla sabbia sottile che ricopriva le rive del Lago Nero, Daphne osservava parte della sua superficie ricoperta dal ghiaccio. Era quasi la metà di dicembre, le temperature si erano notevolmente abbassate e, tra qualche giorno, avrebbe potuto indossare i pattini per trascorrere pomeriggi come quello a pattinare, invece di leggere un libro o ascoltare musica com'era solita fare in primavera o in estate. Era da quando si era iscritta ad Hogwarts, due anni fa, che aveva preso quest'abitudine. Quel posto l'aveva aiutata a riprendere una passione che, dopo la morte di sua nonna, credeva di aver perso per sempre. Si recava in quel luogo, solitamente, quando Hunter era a lezione - come adesso- e non poteva stare insieme a lui oppure, semplicemente, quando aveva voglia di stare da sola, lontana dai corridoi affollati e dai suoi doveri di Caposcuola che, puntualmente, la volevano a contatto con le persone. Era abituata ad avere conversazioni superficiali e a stare in mezzo alla gente, anche perché, per metà della sua vita, non aveva fatto altro che intrattenere gli indesiderati ospiti di sua madre che, a fine serata, non mancavano di complimentarsi con lei per la maturità e l'eleganza di sua figlia. Aveva fatto di tutto per renderla orgogliosa. Ad oggi, se ne pentiva, quella stronza non meritava un bel niente. I tratti del viso si indurirono leggermente e lo sguardo, dapprima rilassato, assunse la durezza del ghiaccio. Ripensò al loro incontro di qualche giorno fa dove, con fare misterioso, le aveva detto che, presto, avrebbe ricevuto una gradevole sorpresa. Che aveva in mente? Quella donna ne sapeva una più del diavolo e, una parte di lei, temeva che Hunter fosse in qualche modo coinvolto. Per quanto il suo mentalismo fosse migliorato, non era ancora in grado di respingere quello di sua madre e c'era il rischio che, a sua insaputa, fosse venuta a conoscenza del legame profondo che aveva con il corvonero. Probabilmente lo sapeva già, aveva conoscenze ovunque sul suolo inglese visto l'appellativo che, da sempre, l'accompagnava: "la regina dell'alta società." Le costava ammetterlo, ma le calzava a pennello; non a caso, era riuscita ad incantare con la sua bellezza e i suoi modi quasi tutte le personalità di spicco della Norvegia, tranne il Ministro che, essendo amico di suo padre, doveva essersi accorto che c'era qualcosa che non andava in lui quando, di punto in bianco, aveva dichiarato di essersi innamorato di una babbana. Sarebbe dovuta andare più a fondo alla questione e avvalersi dell'aiuto di Charles ma, se non lo aveva ancora fatto era perché, quasi sicuramente, le avrebbe chiesto in cambio qualcosa a cui non avrebbe mai potuto acconsentire. Le scriveva ogni due settimane e, nelle sue lettere, c'era sempre qualche riferimento al loro passato. La sua corrispondenza la leggeva spesso insieme ad Hunter che, il più delle volte, aveva manifestato un certo fastidio per delle insinuazioni che il figlio del Ministro avrebbe potuto decisamente risparmiarsi. Non era cambiato di una virgola. Usava le parole per far capire altro, tipico di chi aveva come padre un politico. Il suo faceva la stessa identica cosa, ma era stato, insieme a sua madre, un ottimo insegnante, per cui riusciva quasi sempre a leggere le sue vere intenzioni. Per quanto riguardava Charles, lo conosceva abbastanza bene da sapere che quelle sue continue lettere erano un modo per riprendersi ciò che gli era stato promesso. Aveva sempre ottenuto quello che voleva con uno schiocco di dita e, nel momento stesso in cui qualcosa gli era negato, si infastidiva e faceva di tutto per averlo. Lei, però, non era un oggetto e di certo non avrebbe ubbidito agli ordini di nessuno. Se voleva essere di nuovo suo amico, doveva cambiare atteggiamento e smettere di pretendere l'impossibile. Hai avuto anni per fare qualcosa, adesso è tardi. Avrebbe potuto dirle qualcosa dopo il bacio che si erano scambiati per curiosità. Era stato il suo primo bacio. Tuttavia, ciò che aveva sentito in quel momento non era paragonabile a quello che aveva provato quando, a baciarla per la prima volta, era stato Hunter. Era una lotta persa in partenza. Nel mentre, affondò le dita nella sabbia, pensierosa, e per un attimo desiderò di essere tra le braccia di Hunter, così da dimenticare ciò che sua madre le aveva detto. Aveva architettato qualcosa per farla passare dalla sua parte perché, si era accorta, che con la tortura e il ricatto non avrebbe ottenuto niente da lei. Non più. D'un tratto, sentì lo scricchiolio di un ramo che si spezzava. Si voltò e si ritrovò faccia a faccia con un concasato che, fino ad ora, non le aveva mai dato problemi.«Harris.» Lo salutò con lo stesso distacco. Avevano un modo di fare abbastanza simile e, a parte qualche scambio di battute in Sala Comune, non avevano mai davvero parlato. Di lui sapeva poche cose: era il fratello più tranquillo del duo Harris, frequentava Grace e, se ricordava bene, era amico di Freya. «Non preoccuparti, non mi disturbi. Puoi rimanere se vuoi.» Gli sorrise cordiale, invitandolo a sedersi. Non trovava la sua presenza fastidiosa, le sembrava un tipo tranquillo e a modo. L'opposto di quel soggetto che, malauguratamente, Halley si ostinava a frequentare. Un maleducato che, con i suoi due neuroni in testa, aveva preso più di lei alla lezione di Alchimia. Come avesse fatto, rimaneva un mistero. «A meno che tu non preferisca stare da solo. Di solito, chi viene qui a quest'ora, lo fa proprio per questo.» Si tirò le ginocchia al petto e vi poggiò il mento, osservandolo con i suoi occhi azzurro chiaro. «Me compresa.» Confessò. Ovviamente, le volte in cui ci era andata con Hunter erano un'eccezione. Ma lui non avrebbe dovuto neanche dovuto prenderlo in considerazione visto che, se avesse potuto, avrebbe trascorso tutte le ore della giornata in sua compagnia. Con le labbra attaccate alle sue.



    Edited by Daphne. - 6/4/2024, 00:09
     
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    La compagnia era, per molti versi, sopravvalutata. La calma. La tranquillità. Elementi di fondamentale importanza per un tipo riflessivo come lui. Il silenzio cullava la sua mente. Distendeva i suoi nervi e, per qualche attimo, riusciva addirittura a conciliare i pensieri negativi, incanalandoli verso quel dimenticatoio che, però, non sarebbe stato mai raggiunto. Episodi sporadici. Sì. Ultimamente, Mike, non aveva più posseduto quel lusso di scivolare in qualche concetto frivolo. La sua situazione non lo permetteva. Ogni angolo della sua mente si trovava impestato dal senso di colpa e le immagini che gli sovvenivano, scuotevano la sua anima a tal punto da spingerlo a desiderare di potersela strappare via. Inutile. Imparare a convivere con quelle sensazioni, sembrava essere l’unica opzione disponibile per non rischiare di impazzire. Sì. Ma in quanti sarebbero riusciti a condividere quel fardello con lui? Suo fratello. Certo. Vittima, anche lui, di un destino infame. Lui e solo lui. Nutriva qualche dubbio di coloro che, dopo diversi mesi, erano stati in grado di ritagliarsi un pezzetto della sua quotidianità. Ci si era abituato e non era pronto a perdere ciò in cui aveva sperato disperatamente, anche dopo aver tolto la vita a quell’uomo privo di colpe. Sospirò. L’aria iniziava a farsi pungente ma, nonostante le condizioni atmosferiche, la sua temperatura restava invariata, come se non vi fosse alcuna differenza tra interno e esterno. Strano ma neanche troppo. Forse mi sto ammalando. O semplicemente la sua parte non umana lo proteggeva almeno da quel lato, Bella merda. Come fosse un premio di consolazione. La passeggiata sulle rive del lago, ormai, era divenuta una consuetudine. Un rito. Un frangente intimo del quale non riusciva più a fare a meno. Se fosse un bene o un male, dipendeva molto dagli avvenimenti della giornata. Rimanere solo con sé stesso, comunque, fungeva da cura. Un cerotto poco utile, con il compito di rimarginare una ferita profonda e difficile da rimarginare. Meglio di niente. Svoltò verso il suo luogo sicuro e là, proprio appresso al suo tronco prediletto, vi era una figura che, a guardarla più attentamente, risultò facilmente riconoscibile. Daphne Andersen. Si interrogò su quanto potesse essere giusto, continuare per quella strada ma svanire di punto in bianco, dopo essere stato scoperto a fissarla in quel modo, sarebbe stato leggermente fuori luogo e inquietante. Mancava solo che lo scambiassero per un manico o qualche cosa di simile. Sarebbe stato, come dire, mortificante. E poi, all’apparenza, era pur sempre una persona rispettabile mica come David. Mentalmente inveì contro sé stesso ma, alla fine, si decise a proseguire, raggiungendo la ragazza. ”Harris.” Lo salutò di rimando, utilizzando il suo cognome e nulla più. Un incontro tra freddezze. Era la prima volta che si ritrovava, da solo, faccia a faccia con il Prefetto della sua Casa. La prima volta in cui avrebbe dovuto impegnarsi per trovare uno spunto per non cadere in qualche imbarazzante silenzio, che non sarebbe stato in grado di gestire, se non attraverso la fuga. Scortese, no? “Quello furbo, si!” Rispose, andando ad affiancarsi a lei, con espressione vuota ma con una buona dose di sarcasmo per assicurarsi una reazione dall’altro lato. I rapporti umani non erano il suo forte e trovarsi faccia a faccia con qualcuno di cui non aveva alcuna informazione utile, lo metteva a disagio. A cosa attaccarsi? Di cosa parlare? Forse avrebbe dovuto impegnarsi un po’ di più, allargare la cerchia delle sue conoscenze ma, momentaneamente, il focus della sua attenzione si divideva tra la sua situazione sentimentale e quella famigliare. Due problematiche non indifferenti da gestire in contemporanea, stando attento a non farle entrare in collisione. Mai. Se fosse accaduto, non era certo di poter proteggere a dovere colei che, per lui, contava più di ogni cosa al mondo. La verde-argento, comunque, lo invitò a rimanere, spazzando via il dubbio di essere di troppo. Frasi di circostanza, per sopperire alla maleducazione. Sì. Ne era consapevole. In pochi avrebbero avuto il coraggio di dire la verità, cacciando la fonte di disturbo. Figuriamoci, poi, se quel qualcuno teneva appuntata la spilla scintillante sul petto. Il tutto si trasformava in un dovere. “Non sono bravo a mentire.” Come no. Una menzogna bella e buona. Guardò verso lo specchio d’acqua, tuffando la mano nella tasca per recuperare il suo inseparabile pacchetto di sigarette. Lo estrasse e, subito, ne portò una tra le labbra, accendendola. “Vuoi?” Domandò, certo che il suo gentile gesto non potesse andare a buon fine. Troppo per bene. Almeno, quella era l’impressione che dava quella ragazza così schiva e algida. La osservò con la coda dell’occhio portarsi le ginocchia al petto. Parve strano. Che fosse successo qualche cosa? Stava a lui scoprirlo? Poteva essere un bene ficcare il naso negli affari altrui? Domande inutili. “Sì. Ero venuto qui per stare solo. Sono colpevole!” Confermò con il solito tono pacato e apparentemente distaccato. “I piani sono sopravvalutati.” Intanto ci avrebbe pensato la vita a scombussolarli e a gettare gli individui in balia degli eventi. “Non vorrei essere invadente…” Né tantomeno entrare in territori minati. “… ma è successo qualche cosa?” Sprigionò sulla sua testa il fumo che andò a disperdersi nella brezza invernale, rilasciando l’odore della nicotina in quello spazio occupate da due, evidenti, anime inquiete. Forse avevano solo bisogno di riposo. Lontani dal castello e dai doveri che li investivano in quel contesto impegnativo.
     
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    Daphne osservò, in silenzio, Micheal prendere posto accanto a lei, mantenendo, tra loro, le dovute distanze. Lo invitò a rimanere perché sapeva che non era un tipo invadente, in caso contrario, ne avrebbe volentieri fatto a meno. La infastidivano le persone che, senza preavviso, invadevano il suo spazio personale, talvolta posandole una mano sulla spalla o sfiorandole il braccio. Che bisogno c'era? Si trattava di un contatto superfluo e indesiderato che non aveva ragione di esistere. Il suo modo di fare così freddo e scostante, le impediva di trovarsi spesso in situazioni del genere, eppure, certa gente, era così sfacciata da provare a toccarla lo stesso. A quel punto, rivolgeva loro uno sguardo gelido e, con voce ferma, li intimava a non riprovarci mai più. Ovviamente, non era sempre così: con le sue amiche era meno rigida, si divertiva e, contro ogni aspettativa, qualche volta andava a ballare, proprio come aveva fatto con Halley, in estate, durante il loro breve soggiorno a Miami. Era stata una bella vacanza dove, le due, si erano aperte su questioni delicate: la grifondoro le aveva parlato del talento che, malauguratamente, aveva ereditato da sua madre, mentre Daphne le aveva espresso i suoi dubbi su Emma e le aveva parlato del rapporto complicato che aveva con la sua, di madre, se così poteva definirsi. Non aveva, però, fatto nessun accenno al mentalismo. Questo perché, se avesse voluto, Ellen avrebbe potuto incontrare Halley a sua insaputa e leggerle la mente, mettendo in pericolo entrambe. Nella peggiore delle ipotesi invece, quella stronza avrebbe potuto convincere Seira a passare dalla sua parte con una bugia spacciata per verità. Con le sue doti attoriali, avrebbe potuto mandare un' innocente in carcere. Meglio non tirare troppo la corda, l'aveva già provocata abbastanza in quei mesi, ignorando, come al solito, le sue lettere e rifiutando i loro incontri. Cosa avrebbe fatto, questa volta, per vendicarsi? Non lo sapeva, sperò solo che non coinvolgesse persone esterne, altrimenti l'odio che nutriva nei suoi confronti sarebbe cresciuto a dismisura.
    Generalmente non aveva problemi ad intavolare conversazioni superficiali o di circostanza. In fondo, era pur sempre la figlia di Ellen Blackwood, regina dell'alta società inglese ed esperta nelle arti oratorie. «Avrei scommesso il contrario.» Sorrise sorniona, pronunciando quelle parole in tono neutro anche se, in esse, c'era una punta di positiva ironia. Daphne mentiva spesso, in particolar modo di fronte alla domanda "come stai." Era solita nascondere le sue emozioni, soprattutto di fronte agli estranei. Tra l'altro, se non fosse stato per Hunter, non avrebbe mai iniziato ad aprirsi davvero con gli altri. A lui, infatti, aveva raccontato della morte di suo fratello con il viso rigato dalle lacrime e la voce strozzata, ma le braccia che l'avevano avvolta l'avevano, in qualche modo, salvata da un dolore che, per anni, si era portata dentro. Prima o poi, avrebbe detto anche ad Halley di Ludde, però la mora aveva già abbastanza problemi di suo e non le sembrava giusto caricarla di un peso ulteriore. Il serpeverde, intanto, le aveva offerto una sigaretta. Stando alle regole della scuola, era vietato fumare. Decise, tuttavia, di chiudere un occhio poiché si trovavano all'aperto e non tra le mura del castello. «No, grazie.» Rifiutò cordialmente la sua offerta. «Ho intenzione di tornare a gareggiare a livello agonistico in primavera, quindi passo. Sai, non vorrei che la mia vittoria fosse compromessa.» Se era competitivo come lei, l'avrebbe capita. Voleva riprendere quella passione che aveva lasciato insieme alla Norvegia, anni prima, per sentirsi di nuovo libera. Doveva ringraziare Hunter per questo; dopo essere stata, con lui, nel luogo in cui era nata, era riuscita a superare il trauma della morte suo fratello. [color=#3cbcd4 «Pattinaggio sul ghiaccio.»[/color] Specificò il campo. Come gli aveva detto poco fa, aveva deciso di tornare a pattinare seriamente, con l'obiettivo di vincere la medaglia d'oro che, in passato, si era vista portare via da Erna, la sua rivale storica. «Giocando a Quidditch, non dovresti evitare anche tu? » Si voltò a guardarlo con i suoi occhi azzurro ghiaccio mentre il vento le scombinava i capelli. Un tempo, li avrebbe subito sistemati, adesso, invece, quando era da sola o all'aperto, preferiva lasciarli così. Era meglio essere flessibili su delle cose e adattarsi alle situazioni, piuttosto che permanere nei soliti schemi. Questo modo di pensare poteva le sarebbe stato utile anche in un duello. Era stata sua madre a dirglielo; ignorare il suo prezioso consiglio sarebbe stato scortese parte sua.
    Aveva tirato le gambe verso il mento, cingendole con le braccia, guardando, per un attimo, l'orizzonte. Lo aveva fatto senza un motivo in particolare, per questo, quando il ragazzo che aveva di fianco le chiese se c'era qualcosa che non andasse, aggrottò le sopracciglia e inclinò leggermente il capo. «No, cosa te lo fa pensare?» Curiosa, gli pose la domanda. Non aveva fatto, né detto nulla che potesse lasciar intendere che le fosse, effettivamente, successo qualcosa. Mai come oggi, era davvero serena. Forse il minore degli Harris assumeva quella posizione quando era triste? O, più semplicemente, quando era giù di morale, si sedeva in prossimità del lago, concentrarsi sul rumore dell'acqua per far tacere la mente? Lei, di tanto in tanto, andava lì proprio per questo, solo che da quando stava con Hunter, la sua fonte di serenità era diventata lui. «A te, invece, è per caso successo qualcosa?» Gli chiese di rimando con la medesima freddezza. Si stavano studiando l'un l'altro, ma avendo - almeno in apparenza - personalità simili, era ovvio che accadesse. Tra l'altro, essendo Caposcuola, doveva interessarsi del benestare dei membri della sua casa. Rientrava tra i suoi doveri. Per il resto, al di fuori della scuola, si faceva gli affari suoi. «Sono più brava ad ascoltare.» Se voleva, poteva raccontargli qualcosa. Anche perché, ciò che aveva detto, era assolutamente vero. Da piccola, ad esempio, se ne stava seduta davanti al camino in compagnia di sua nonna la quale, a bassa voce, leggeva i suoi libri preferiti. Quel ricordo la gelò ancor di più, ma Daphne dissimulò il tutto, pertanto, la sua espressione rimase la stessa.



    Edited by Daphne. - 6/4/2024, 00:09
     
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    La menzogna. Un’arte in cui, Mike, aveva imparato a cimentarsi. Spesso si era ritrovato a far fronte a situazioni difficili. Mortali. Indossare una maschera e non pensare a ciò che le azioni avrebbero comportato, quindi, sembrava essere l’unica soluzione per raggiungere –in un futuro non troppo lontano- i suoi obiettivi primari. Non era certo di riuscirci. La sua indole, il suo temperamento, vertevano in tutt’altra direzione ma, come da programma, niente e nessuno si sarebbe intromesso tra lui e la vittoria. In palio vi era la libertà. Sua e di suo fratello. Giorno dopo giorno, questa consapevolezza, scagliava ombre di cinismo in lui e la cosa iniziava a preoccuparlo. Non gli piaceva esercitare violenza sul prossimo, questo no, ma se fosse stata necessaria per guadagnarsi la fiducia di colui che avrebbe voluto morto, per colpirlo alle spalle –quando meno se lo sarebbe aspettato-, allora, il tutto assumeva un suono più dolce e soave. Si avvicinò alla Caposcuola, mantenendo comunque un certo distacco, così come d’abitudine nei confronti di chi, senza alcun stupore, non rientrava nelle sue conoscenze più strette. Il suo carattere non piaceva. O meglio, non invitava i compagni ad avvicinarsi a lui per invitarlo da qualche parte, anche solo a scambiare due parole davanti a una stupidissima bevanda analcolica. Viveva in disparte. Defilato. Come se niente e nessuno potesse scalfire la sua corazza costruita a fatica negli anni, evitando di essere colpito da quelli che erano i giudizi di persone delle quali non gli importava un bel niente. La situazione si trovava sulla strada del cambiamento. Sì. Ma non del tutto. Perché il suo limite più grande stava proprio nel non voler farsi conoscere. Lasciarsi andare a un rapporto, anche solo amicale, avrebbe voluto dire spifferare informazioni che non era ancora pronto di condividere con chiunque. Senza contare la natura che lo affliggeva. Chi avrebbe accettato di buon grado un mannaro per amico. Andiamo. Pura utopia. Così come Grace, probabilmente, sarebbe fuggita una volta vista la sua faccia trasformarsi in quella di un mostro. Pensieri inutili. Problematiche che avrebbe affrontato a tempo debito. Se mai fosse arrivato il giorno.
    In quel momento, l’unica cosa che contava era mantenere la calma e tentare, almeno, di intavolare un discorso che non lo facesse apparire un perfetto idiota davanti a una delle cariche della scuola, non avendo lei alcuna idea di come trattare con lui e viceversa. Gli scappò un ghigno quando, per chissà quale opera divina, la bionda mise in discussione la sua incapacità nel mentire. Bingo. Che poteva dire a sua discolpa? Nulla Ed essere cresciuto in una famiglia come la sua, non faceva altro che essere una garanzia bella e buona. Beh. Poteva saperlo lui. Al più David. Per gli altri rimaneva la stessa faccia d’angelo devota allo studio e al suo miglioramento personale. Fece spallucce. Colpito e affondato. Ma poca importava, vista l’atmosfera che non pareva una delle migliori. Il Lago era, sì, un luogo tranquillo ma come tale non offriva possibilità di svago se non quella di rimanere soli con i propri pensieri. Bella merda in alcuni frangenti della vita. Rifiutò la sigaretta offertale, giustificandosi in maniera più che ammirevole. Avrebbe dovuto fare lo stesso per il quidditch ma, in fin dei conti, neanche teneva particolarmente al suo ruolo in squadra. Rimanerci, almeno, lo avrebbe salvato dall’ira funesta della Riis, che difficilmente sarebbe stata in grado di accettare un suo eventuale abbandono. Al solo pensiero gli venivano i brividi. E poi Grace. Lei e la sua amica assatanata vivevano per quegli attimi di gloria sulle scope. No. Troppi problemi. Non aveva bisogno di rincarare la dose a quel punto. Fare il bravo bambino, allenarsi e smettere di immerdarsi i polmoni con la nicotina, forse avrebbe giovato alle sue prestazioni sul campo. Chissà. Magari lo avrebbe scoperto. O forse no. In ogni caso fu sorpreso quando, Daphne, sollevo per l’appunto la questione. “Dovrei.” Una risposta vaga, priva di qualsiasi convinzione. Spense l’oggetto della discussione, tornando poi a guardare la sua interlocutrice. “Visti i risultati.” Alluse alla disfatta giunta dal campionato precedente e l’amarezza si fece sentire, anche a distanza di mesi. “Hai proprio l’aria di chi pattina sul ghiaccio.” Tentò di allontanare la delusione che, nonostante il menefreghismo, l’aveva colpito. Vincere gli piaceva più di quanto fosse pronto ad ammettere. “Di dove sei?” Avrebbe scommesso sui paesi a nord. Là dove il ghiaccio ricopriva la crosta terrestre in lungo e in largo. Triste ma conciliante. Lande desolate e silenzio. Così s’immaginava quei posti lontani. Un po’ l’antitesi di New York, così disastrosamente caotica e fastidiosa. Non aveva mai dato peso a quella modalità di vita ma, da quando si era staccato dalla terra natia, si sentiva sollevato. Diverso. Come se fosse stato adattato da una famiglia migliore di quella precedente. ”No, cosa te lo fa pensare?” Forse perché sarebbe potuta essere altrove. Forse tra le braccia del suo ragazzo. Moore, se non ricordava male il suo nome. Si accese l’ennesima sigaretta, inconsciamente, preoccupato per la piega che il discorso stava prendendo. A disagio. Sempre e comunque. “Impressione.” Commentò, volgendo lo sguardo verso lo specchio d’acqua a tratti agitato. “Ma, è anche vero che non sono bravo neanche a leggere le persone.” Così come a mentire. Anche quella doveva essere una specie di arte per pochi. Questione di allenamento? Mistero. Inclinò il capo e appoggiò la schiena al tronco rugoso di chissà quale specie di albero. “Sono annoiato.” E sovraccarico di informazioni da utilizzare per giungere a capo di quello che era il suo problema principale. “Queste giornate tutte uguali.” Una riflessione profonda che, però, rispecchiava la calma piatta che, in quel momento, regnava in lui. Una calma apparente. Inquietante. Che fosse stato stregato dalle piccole increspature del lago? Tutto sarebbe stato possibile. Eppure il senso di fastidio rovinava la potenziale serenità. “Ora penserai che sono un tipo dalla depressione facile!” Si sforzò di sorridere. Nelle sue parole non vi era ombra di divertimento, al contrario, quelle poche frasi pronunciate a una perfetta estranea lo rendevano più cupo del dovuto, come se la dose normale non fosse già abbastanza.
     
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    Daphne era ancora amareggiata per la disastrosa performance dei Serpeverde dello scorso anno. Erano arrivati ultimi sia nel Quidditch che nella Coppa delle Case, e lei era delusa. Si era impegnata al massimo per la sua Casa, in particolare come Prefetto, sacrificando tempo e energie per rappresentarla al meglio, e si sentiva frustrata dal comportamento irresponsabile di alcuni suoi compagni, in particolare di idioti come David Harris e Harry Barnes. Era colpa di quei trogloditi se Serpeverde si era vista sottrarre punti preziosi che avrebbero potuto portarla alla vittoria. Barnes, per sua fortuna, era sparito nel nulla. David, invece, era ancora lì, una presenza fissa e fastidiosa tra le mura di Hogwarts. Come se non bastasse, era anche il fidanzato di Halley. Daphne non lo sopportava: per lei era un troglodita, un essere rozzo e maleducato con il quale non aveva nulla in comune. Quelli come lui, infatti, li aveva sempre guardati con indifferenza ma, per non dare un dispiacere alla sua amica, teneva per sé i suoi commenti negativi. A differenza del maggiore degli Harris, Micheal era un ragazzo educato, tranquillo e, in generale, non le aveva mai dato problemi. Forse era anche per questo che lo aveva invitato a rimanere e aveva intavolato una conversazione. Poggiò il mento sulle ginocchia piegate e osservò, o meglio studiò, le sue reazioni. Micheal sedeva rigidamente accanto a lei, gli occhi, freddi come i suoi, la guardavano di rimando. Le parlò con tono distaccato, quasi indifferente, esibendo un contegno che le ricordava molto il suo stesso modo di fare. Anche lui aveva una famiglia disfunzionale alle spalle? Probabile. Tenne per sé quella considerazione, preferendo parlare del più e del meno. Daphne, infatti, pur essendo più predisposta a raccontarsi e a fare amicizia rispetto al passato, era ancora una ragazza con dei confini ben definiti. Non si apriva facilmente con tutti, preferiva procedere con cautela e lo stesso sembrava valere per il suo concasato. «Avete fatto davvero così schifo? Il Quidditich mi annoia, quindi non ho visto nessuna partita, nemmeno le finali di campionato.» Fece spallucce e ammise senza problemi il suo parere negativo sullo sport più amato del Mondo Magico. Lo trovava noioso, prevedibile e decisamente troppo caotico, come il calcio babbano. Anche suo cugino John era un fanatico del Quidditch e tifava per i Falmouth Falcons. Non a caso, le cene da sua zia a Londra si trasformavano in un acceso dibattito sportivo, con John che urlava e gesticolava davanti al teleschermo con i suoi amici mentre lei e Hunter, con scarso entusiasmo, cercavano di seguire la conversazione. La musica era un'alternativa decisamente migliore. Malgrado ciò, Daphne aveva un bel rapporto con suo cugino ed era felice del legame che si era istaurato tra lui e Hunter. «Lo prendo come un complimento.»Sorrise cordiale. «Ma cosa te lo fa dire? I capelli biondi e gli occhi azzurri?» Oppure era il suo modo di muoversi, il suo distacco e la freddezza con cui si relazionava agli altri a farla sembrare una pattinatrice sul ghiaccio? Dopotutto, non era la prima persona che le diceva una cosa del genere. Del resto, la Norvegia, la terra dei ghiacci, era il suo luogo d'origine e quel paragone era diventato famigliare. «Sono cresciuta in Norvegia, ma sono tre anni che vivo qui Londra. A te cosa ha portato qui?» Suo fratello forse? O anche lui era scappato da un posto che non lo rendeva più felice? L'estate scorsa era tornata nella sua terra natale dopo quasi due anni di assenza. Lo aveva fatto per condividere con Hunter una parte del suo passato, un passato che, seppur amato, le aveva anche causato tanta sofferenza. Per questo motivo, per il momento, considerava l'Inghilterra la sua vera casa; e il merito non era di certo di quella stronza di sua madre, con cui i rapporti rimanevano tesi, ma per Hunter, che rappresentava ormai il suo porto sicuro. Un vento gelido iniziò a spirare, increspando le onde del lago nero, che si agitavano inquiete sotto la sua superficie. I capelli le si mossero all'indietro, accarezzati dal vento, e il suo sguardo gelido si posò per un attimo sull'orizzonte. La sua mente era calma, immersa in una quiete contemplativa. Forse quel silenzio prolungato aveva indotto Michael a pensare che fosse turbata da qualcosa. Con un lieve sorriso, scosse la testa e gli chiese, con tono pacato, il motivo per cui avesse tratto quella conclusione. «Capisco. Comunque no, non è successo niente. Sono solo tranquilla. Per quanto riguarda il non saper leggere le persone, pochi possono vantare di avere questa dote, dopotutto. » Dipendeva anche da chi avevi davanti. Lei, ad esempio, era abile nel celare le sue emozioni quindi, a meno che non si trovasse di fronte a un Legilimens, ben pochi erano in grado di comprenderla appieno. Lo stesso poteva dirsi per il ragazzo davanti a lei, che appariva controllato e inscrutabile. «Forse ti sembrano tutte uguali perché non c'è niente o nessuno che ti dia un po' di brio.» Commentò, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio con un gesto aggraziato. Era strano sentirgli dire quelle parole. Se ricordava bene, stava con Grace, una ragazza vivace e piena di vita, e suo fratello, quel demente, di certo non gli rendeva la vita facile. Anche i suoi giorni, prima di conoscere Hunter, erano tutti uguali, scanditi da una routine tranquilla ma noiosa. Questo, ovviamente, prima dell'arrivo di quella stronza. Ora i suoi giorni erano quasi un inferno, ma la presenza costante del suo ragazzo le impediva di precipitare completamente nell'oscurità. Quello era il vantaggio di amare una persona ed essere amata, in cambio, allo stesso modo. «Questo lo hai detto tu Harris, non io.» Lo guardò con la coda dell'occhio, cercando di attenuare la freddezza del suo sguardo. Più che depresso, il suo concasato le dava l'idea di essere una persona chiusa e introversa poco incline a socializzare.



    Edited by Daphne. - 6/4/2024, 00:10
     
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    Quidditch. Coppa delle Case. Quella scuola era una cazzo di continua competizione e, per Mike, questo era frustrante. Fuori dalla sua portata. Ripensò per un attimo alle ripetute figure di merda poste in essere da lui e dalla sua squadra, durante le partite passate. Il declino. Le sconfitte erano state amare. Il morale dei suoi compagni era andato a farsi fottere, per non parlare dei nervi così tesi da essere, praticamente, ingestibili. David aveva rassegnato le dimissioni da vice capitano e, a dirla tutta, lui stesso aveva messo in discussione la sua permanenza ma qualcuno, aveva avuto il sopravvento sul suo volere, “invitandolo” caldamente a cambiare idea a riguardo. Beh, forse una possibilità a quello sport, dopo tutto, poteva anche darla, anche solo per avere un argomento in più in comune con Grace, praticamente invasata. Sbuffò e ripose le mani nelle tasche dei pantaloni, puntando lo sguardo verso l’acqua scura e ricca di increspature causate dalla brezza invernale che, a tratti, soffiava su quel luogo dimenticato da Merlino. Che dire? La risposta era una. Una soltanto e non si trattava di qualche cosa di positivo, anzi. La sua iper criticità, di lì a poco, avrebbe preso il sopravvento se non avesse tentato di minimizzare episodi che non avevano nulla di buono. Zero. Neanche lontanamente. “Abbastanza!” Ammise a malincuore, un po’ sollevato dalla notizia che qualcuno, fortunatamente, si era risparmiato quella tragedia. “Non è stato il nostro anno!” Se così si poteva dire. Calò le iridi artiche su di lei, studiando la sua espressione. Non vantava conoscenza alcuna verso quella fanciulla dal volto nordico eppure, seppur si basasse su una pura e semplice sensazione, nella sua mente, avanzò l’ipotesi che non fosse tutto in regola. Tra i suoi lineamenti scorgeva un’ombra oscura, come se le preoccupazioni operavano, indisturbate, tra i lineamenti, rendendoli spigolosi e per niente accomodanti. Una sorta di velo da lei indossato per mantenere a debita distanza le fonti disturbatrici. Chissà. Si appoggiò comodamente al tronco e si accese l’ennesima sigaretta della giornata, immaginando la voce della Johnson riprenderlo, a causa della sua brutta abitudine che, a sua insaputa, non avrebbe provocato danni alla sua salute. Sorrise automaticamente e, non appena si accorse di avere sulle labbra un sorriso ebete, tornò al presente, scrollandosi via i pensieri seppur di malavoglia. Eppure, quel che le aveva confessato, corrispondeva esattamente all’idea che si era fatto di lei, dopo averla incontrata spesso per i corridoi e in Sala Comune. Fredda. Inavvicinabile. Sembrava essersi circondata di pochissime persone, tra le quali vi era il suo ragazzo, un ricciolino dalla scintillante spilla da prefetto; e la ragazza di suo fratello. Dalle poche notizie, inoltre, gli era giunto all’orecchio che, ogni tanto, si dilettava a formare lo strano trio con le sue compagne di stanza. La rossa dai modi poco ortodossi e Freya, quella che più di tutti aveva scavato sotto il suo ghiaccio, giungendo in profondità dove albergava l’essenza più pura di Michael Noah Harris. Un’impresa più unica che rara. Riuscita grazie al potere della Riis di portarlo allo sfinimento. Una tattica come tante, in fondo. “Come vuoi!” Rispose distrattamente, evitando il contatto visivo. Non era di certo pratico con quel tipo di interazioni e, forse, sarebbe stato meglio non andare oltre. Complimenti e parole buone non erano mai state il suo forte. Di certo, però, non era sua intenzione mancarle di rispetto in nessun modo. Le sue deduzioni si rivelarono esatte. Norvegia. Il nord Europa. Territorio ostile, freddo e mai esplorato in prima persona. “Clima ostile, eh?” Non che Londra, con i suoi frequenti acquazzoni, fosse migliore ma, d’altra parte, almeno, non rischiavano di ibernare ogni volta che mettevano il naso fuori dalla porta di casa. “Direi di no.” Obiettò, con pochissima enfasi nel tono di voce. “Biondo. Occhi azzurri. Sono del Bronx.” La genetica. A volte simpaticamente bastarda ma ringraziava Merlino e Morgana per il dono della non somiglianza con quel figlio di puttana del padre. “Il cognome.” Sottolineò, così, per non sembrare il classico tipo, fissato con lo studio delle persone.
    ”A te cosa ha portato qui?” Per un soffio non gli scappò una risata grottesca. Certo, le cose erano lievemente cambiate ma, ogni volta che ripensava al vero motivo che l’aveva spinto ad attraversare l’oceano, un minimo di divertimento si faceva largo in quei pensieri, una volta distruttivi. “La famiglia.” La semplicità della risposta lo disarmò. Se prima avrebbe utilizzato quella parola per schernire e ridicolizzare il rapporto che intercorreva con quell’idiota di David, in quel momento, ci sperava seriamente che, un giorno, il loro legame sarebbe stato tale da essere considerato una vera relazione fraterna. A tutti gli effetti, dove la fiducia ne sarebbe stata il cardine. “Patetico, non trovi?” Ironizzò per levarsi dall’impiccio di essere stato un po’ troppo sincero, scivolando in un discorso che non avrebbe mai voluto affrontare con una persona che, effettivamente, non aveva alcuna idea dello schifo che si portava appresso. Il suo arrivo al castello, comunque, era servito a ridare quello spiraglio di speranza di ritrovare la luce in quel lungo corridoio di buio che era piombato su di lui. Aveva una ragazza. Degli amici. Un curriculum scolastico di tutto rispetto. Non mancava nulla, solo a possibilità di cancellare i suoi atti indicibili, commessi per quello che sperava fosse un bene superiore.
    “Forse è meglio così.” Alzò le spalle, lasciando fuoriuscire una nuvoletta di fumo, proprio sopra le loro teste. “O forse no.” Se avesse vantato un’abilità di quel calibro, forse, si sarebbe potuto risparmiare una grande quantità di delusioni. “Sarebbe utile, da un lato.” Perché no? “Quanto tempo risparmiato.” Sbuffò, apprendo annoiato dal pensiero che avrebbe potuto scrivere parecchi nomi e cognomi, sulla lista degli inutili, coloro che non avrebbero mai occupato alcun posto nella sua quotidianità. Purtroppo, Mike, vantava un puntiglio quasi fastidioso a riguardo e, spesso, non si rendeva conto di quanto questa sua selettività lo avvicinasse, pericolosamente, alla più profonda solitudine. Criptico. Continuò a mantenere la sua facciata dura e impenetrabile. La fiducia era un qualche cosa di ambizioso, per coloro che si approcciavano a lui e, difficilmente, veniva concessa ma mai dire mai, no? Tentare non poteva nuocere alla salute. Riuscirci, probabilmente si. Senza contare il suo bisogno di mantenere l’interesse attivo. Nessuna amicizia di circostanza. Niente di quel genere. La noia, in quel caso, avrebbe soffocato il suo petto, spingendolo ad allontanarsi. Un problema, il suo, che riscontrava facilmente nella vita di tutti i giorni. “Ho una ragazza.” Commentò. “Lei è il brio fatto a persona.” Una costatazione più che ovvia. Chiunque avesse presente chi fosse la Johnson, non avrebbe potuto smentire quella parole. Un fiume in piena. Nel bene e nel male. “Ho Freya! A quanto so, siete in stanza insieme.” Oh, sì. Lo sapeva bene ma rimase umile. “Dovresti avere presente.” O forse si trattava di un atteggiamento riservato a lui e a lui soltanto, chissà. In quel caso ne sarebbe stato lusingato. “E ho un fratello idiota.” Sempre pronto a minare la sua tranquillità con qualche suo tipico colpo di testa. “Ho un’esistenza alquanto movimentata.” Dissentì, quasi esausto al solo pensiero di quante personalità “briose” orbitassero intorno alla sua povera anima innocente.
    “Colpevole, Vostro Onore!” Aveva ragione. Se l’era cantata e suonata da solo. “Ma, se posso permettermi, sembri reduce di un funerale.” Sarà stata la carnagione pallida o quella strana ricerca di solitudine, in ogni caso, Daphne, non poteva certo essere considerata l’anima della festa.
     
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    daphne «Magari sarà questo il nostro anno. Potremmo anche innalzare due coppe, chi può dirlo.» Scrollò le spalle e un sorriso malizioso si dipinse sul suo viso. Non aveva idea di come sarebbe andata la stagione di Quidditch, quello era un campo imprevedibile, ma la Coppa delle Case era un'altra storia. In quel momento i Serpeverde erano in testa alla classifica e, da quando Daphne si era trasferita a Hogwarts - quasi tre anni prima - era la prima volta che succedeva. Di solito erano sempre gli ultimi, a causa di certi idioti che, con la loro maleducazione verso i professori e la loro irresponsabilità nel contravvenire alle regole, si facevano regolarmente detrarre punti preziosi. Tra l'altro, la loro intelligenza lasciava davvero a desiderare: si facevano beccare oltre il coprifuoco con una frequenza imbarazzante. Durante le ronde, Daphne aveva perso il conto di quante volte si era ritrovata a redarguire gli stessi idioti. Alla terza infrazione, però, aveva inflitto loro la giusta punizione, nonché la sottrazione di cinque o dieci punti. Era il minimo che potesse fare. A parte questi spiacevoli inconvenienti, era davvero felice di vedere la sua Casa in testa alla classifica proprio nell'anno in cui era diventata Caposcuola. Era una soddisfazione immensa, non c'è che dire. Apparentemente non solo per lei, ma anche per i suoi genitori; sua madre, in particolare, non aveva perso tempo e, non appena ne aveva avuto l'occasione, le aveva inviato una lettera. Le sue parole non lasciavano spazio a dubbi: non si aspettava niente di meno dalla figlia che, con tanta fatica, aveva cresciuto. Che donna odiosa. Ma da lei, se lo aspettava. Da suo padre no. Aleksander, infatti, contro ogni previsione, si era complimentato con lei per il suo rendimento scolastico e per i risultati che aveva ottenuto. Non lo aveva mai fatto prima. Eppure, dopo il loro breve incontro in estate, qualcosa in lui sembrava essere cambiato. Forse stava davvero recuperando la memoria? Così sembrava. Prima della fine dell'anno scolastico sarebbe dovuta tornare in Norvegia. Da sola. Casualmente, con Michael Harris stava parlando proprio della sua terra natale. «Decisamente, ma ci sono abituata. In compenso ci sono dei paesaggi da mozzare il fiato.» Sorrise nostalgica. L'immensità dei fiordi ghiacciati, le montagne innevate che si specchiavano nelle acque cristalline, le foreste di abeti che si estendevano a perdita d'occhio: era un panorama che le toglieva il fiato. E poi, in tutta onestà, il clima ostile della Norvegia le era mancato in più di un'occasione. Le bufere di neve, il vento gelido che spazzava le coste, il sole che tardava a sorgere e si affrettava a tramontare: tutto questo, che all'apparenza poteva sembrare inospitale, per lei era casa.« E poi odio l'estate: fa troppo caldo e ci sono troppi insetti.» I vestiti si attaccavano addosso a causa del sudore, i capelli si sporcavano prima, il trucco colava e gli insetti, quegli esseri immondi, uscivano dalle loro tane per andare liberamente in giro ad infastidire la gente con la loro presenza. Esplorando i boschi nei pressi del suo maniero si era, in qualche modo, abituata alla presenza di quelle creature quasi per esigenza: ragni, formiche, vermi e molti altri facevano parte dell'ecosistema del bosco. Ma c'era una categoria di insetti che -ancora -mal sopportava: quelli dotati di ali. Vespe e calabroni soprattutto.« Del Bronx,eh?» Lo osservò con la coda dell'occhio. «Di tuo fratello l'avrei detto, di te no. Siete molto diversi.» Commentò con voce neturale. Era quasi certa di non essere la prima ad avergli detto quelle cose, perché era la realtà oggettiva dei fatti. Se non fosse stato per il cognome, nessuno dall'esterno avrebbe mai creduto che quei due condividessero lo stesso patrimonio genetico. "Erano davvero stati cresciuti dagli stessi genitori?" Quella era la domanda che si poneva quasi tutta la scuola. I membri di quella famiglia erano alquanto famosi, ma non in modo positivo. Il maggiore, in particolare, era noto per i suoi scandali, le sue liti furibonde e la sua stupidità. Ed il motivo per il quale Michael era qui. «Capisco.» Non aggiunse altro. Daphne non era solita impiccarsi degli affari altrui, in particolare con chi non conosceva bene, e poi il serpeverde non le sembrava il tipo da andare a raccontare i dettagli della sua vita alla prima che capitava. Forse, anche per questo, non si aspettò il commento sarcastico che ne seguì, al quale rispose con la massima disinvoltura. «Non penso. Per quanto mi riguarda credo sia meglio affrontare i propri demoni che scappare.» I loro sguardi si incrociarono. Il silenzio, carico di parole non dette, pesava nell'aria. C'era tensione, ma non era ostile, solo...strana. Il gelo che emanava da quel ragazzo, era forse nato dalle stesse sofferenze che tormentavano il suo cuore? Era troppo presto per dirlo.
    «Da un lato sì, ma se sei troppo empatico,no.» Daphne non era incline all'empatia; erano poche le persone per le quali si preoccupava. Del resto, come le aveva insegnato sua madre, l'utilità di decifrare i sentimenti degli altri si limitava al raggiungimento di un obiettivo ben preciso, una sorta di strumento da sfruttare a proprio vantaggio. «Grace Johnson, giusto? La conosco perché è amica di Halley. Mi sembra una ragazza molto allegra e alla mano.» Nonostante i loro rari scambi di parole, Grace le era apparsa come una persona estroversa, allegra e socievole, sia dalle sue osservazioni che dai racconti di Halley. Anche Hunter ne parlava in questo modo, confermando la sua natura vivace e socievole. I due ragazzi si ritrovavano spesso in biblioteca per delle ripetizioni di Pozione e Erbologia. La sua relazione con Michael poi era di dominio pubblico, conosciuta da quasi tutti gli studenti della scuola. «Freya, sì. Per colpa sua il mio gufo è ingrassato di tre kili.» Scosse il capo, un sospiro sfuggì dalle sue labbra. Quella stupida scommessa... Aveva perso, e come da patto, per un po' aveva lasciato che rimpinzasse Alec di cibo nella speranza che, prima o poi, si sarebbe stufata. Ma niente. Avrebbe dovuto portare il Alec alla guferia: il rischio che diventasse obeso e non potesse più volare era alto. «Allora non hai una vita noiosa, Harris!» Anche perché avere a che fare con quel soggetto di David era tutto un dire. “Ma, se posso permettermi, sembri reduce di un funerale.” Al suono di quelle parole, Daphne si voltò verso il suo interlocutore, i suoi occhi di ghiaccio che lo fissavano attentamente. Il suo viso era disteso, quasi sereno, se non fosse stato per il sopracciglio destro, leggermente sollevato. In realtà, era tranquilla. Nessun turbamento agitava il suo animo in quel momento. «Perché pensi questo? Sono curiosa adesso.» Ruotò il busto di tre quarti, rivolgendo la sua attenzione a Michael.Lo studiò attentamente, notando che la sua espressione non era migliore della sua. In generale, con quell'atteggiamento da "statemi lontano", non poteva di certo definirsi l'epitema della socialità. Tutt'altro. Eppure, proprio lui, così simile a lei, aveva pronunciato quelle parole. La sua curiosità era ormai accesa: voleva conoscere il suo punto di vista.

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    Vittoria o sconfitta? Una realtà che, al di fuori dall’ambito accademico, rappresentava per lui, un dualismo tra vivere o morire. Quelle stronzate avevano il potere di arrecargli un disagio incontrollabile. Banalità. Stronzate che venivano affrontate con un tale entusiasmo, da rendere tutto surreale. Possibile che fossero tutti così idioti da non comprendere quanto, il mondo, potesse essere pericoloso? Lui lo sapeva bene. L’aveva vissuto sulla sua pelle, sporcandosi le mani con sangue innocente, versato per colmare una sete di potere di una persona malata. Se ne vergognava. Avrebbe vissuto la sua intera esistenza punendosi per quei gesti che, d’altra parte, considerava necessari. Sì. Tutto pur di liberarsi dalla morsa mortale di Dean Harris, lo stronzo che, in tutto il suo splendore, seminava il panico, attraverso i suoi scagnozzi, manipolati a dovere. Lo detestava e al solo pensiero la rabbia ribolliva in quelle vene geneticamente modificate, difficili da controllare in specifiche situazioni. Inspirò il fumo, sprigionandolo subito dopo, alla ricerca di quell’equilibrio perso, nel momento in cui la sua mente si era focalizzata su quella dannata faccia di merda. Strinse il pugno e tentò di trattenere il disprezzo che, per forza di cose, stava prendendo il sopravvento su qualsiasi altro sentimento buono. Alzò un sopracciglio e annuì, disinteressato. Coppe. Vittorie. Non gli importava un cazzo. Simboli inutili che nella vita, non sarebbero serviti come riconoscimento. Quindi, perché darsi tanto da fare, quando sarebbero stati tutti quanti nomi, tra tanti passati in quel luogo sperduto. Un menefreghismo eccessivo, forse. Ma davvero. Mike non riusciva a lasciarsi andare alle frivolezze, neanche per un istante. Si sforzava. Così come si sforzava in quel momento a non apparire maleducato, davanti a una persona che, in fondo, non aveva nulla a che vedere con la sua vita. La causa dei suoi mali era da ricercarsi altrove. Lontana. Al di là dell’oceano, in quella villa che gli aveva dato i natali. “Immagino.” Commentò, senza enfasi. Prosciugato dai ricordi. Ricordi riconducibili alla sua arida terra. Lontani ma allo stesso tempo vividi e angoscianti. “Insetti!” Fece eco, mentre un ghigno modificò i suoi freddi lineamenti, contorcendoli in maniera quasi grottesca. “Infestassero solo le nostre estati…” Gli incontri spiacevoli avevano lasciato in lui segni indelebili. “… sarebbe il male minore.” Non aveva ben chiaro perché stesse pronunciando quelle parole ma, d’altra parte, era buona cosa che si sapesse dal principio che -seppur il suo temperamento non fosse neanche lontanamente paragonabile a quello di suo fratello- in lui albergavano ombre altrettanto sbagliate e riconducibili all’oscurità più profonda e assoluta. La conversazione appariva come una di quelle, poste lì, per la circostanza. Per non rischiare che il silenzio inghiottisse entrambe le parti. Un rischio che avrebbe corso volentieri perché, a dirla tutta, i silenzi erano da lui più apprezzati che quegli scambi di parole, volti a riempire spazi morti. Sbuffò. La nicotina entrava in circolo più lentamente del previsto. L’agitazione si faceva sentire. Sapeva che in quelle condizioni non avrebbe ricavato nulla di buono ma, d’altra parte, poteva servirgli come esercizio per testare il suo sistema nervoso, sotto stress. “Mi ritengo un newyorkese.” Le precisazioni sulla provenienza, lo stizzivano. “Sono una mente semplice!” Oh, dietro questa frase vi era una bugia grande quanto il mondo intero. La mente del minore dei fratelli Harris non poteva considerarsi così semplice. Al contrario. Spendeva gran parte del suo tempo libero ad elaborare piani per raggiungere la sua meta, così velatamente, da non lasciare spazio al suo rivale di porre in essere tentativi di difesa. La sua natura lo spingeva in quella direzione e, al contrario di David, la capacità di sinapsi, era lì evidente. Non era stato lui a gettarsi nella fossa dei leoni, ma David. Alla ricerca di cosa, poi? Di risposte da parte di una persona che aveva, deliberatamente, esposto lui e la sua ragazza a un pericolo mortale, consegnandoli su un vassoio d’argento al suo capo? Quanto poteva mai essere stupido? “Lo so.” Che fossero diversi era lì, limpido come un ruscello di montagna, davanti agli occhi dell’intera popolazione del castello. Ma spesso, come ben si sa, si aveva l’abitudine di fermarsi alla pura estetica. “Fortunatamente.” Aggiungerei. La differenza sostanziale stava proprio nel sapersi comportare. Mike poteva contare sull’aspetto docile che la genetica gli aveva gentilmente regalato. David? Beh, David non possedeva neanche quel briciolo di grazia che avrebbe potuto salvarlo da opinioni poco felici. Inoltre, da quando era giunto al castello, il biondo, non aveva mai avuto la fortuna di osservare suo fratello in atteggiamenti decenti con nessuno, compresa la Wheeler la quale, dopo quasi due anni, avrebbe dovuto avere un ascendente positivo su quel mostro che aveva per ragazzo. Neanche si rendeva conto di quanto fosse sbagliata la loro relazione ma, presto, avrebbe aperto gli occhi e poi? Non sarebbe voluto essere nei panni del sangue del suo sangue. Avrebbe sofferto? Sì. Lo avrebbe ammesso? No. Ma il risultato non sarebbe cambiato affatto. Stava a lui. A lui e a lui soltanto. “Siamo ai poli opposti. Fisicamente ma anche caratterialmente!” Neanche voleva essere accostato a quella testa di cazzo, quando si parlava di capacità di elaborazione del contesto nel quale si era inseriti. “Dovresti essere a conoscenza del tipo. O sbaglio? È pur sempre il ragazzo della tua amica.” Alzò lo sguardo su di lei dubbioso. Era a conoscenza del trattamento riservato alla sua amica? Forse no, altrimenti si sarebbe scomposta più così, dopo aver tirato in ballo quello scottante ma, da quel che poteva osservare, si trovava così sicura di sé, tanto da affrontare con estrema calma ogni scambio di battute. “Sempre che si possano affrontare!” Pensò ad alta voce, senza preoccuparsi che quelle sue allusione, avrebbero fatto nascere dubbi nella testolina bionda. Lacune che non avrebbe di certo potuto colmare. “Forse scappare, a volte, si potrebbe rivelare la soluzione più furba!” la sua presenza lì, effettivamente, altro non era che il risultato di una fuga in piena regola, della quale andava molto fiero.
    ”… se sei troppo empatico, no.” Il sopracciglio schizzò all’insù. La faccenda si stava complicando, toccando nozioni di materie sulle quali nessuno, lì dentro, poteva maneggiare senza il libretto delle istruzioni. “Empatia. Capacità di mettersi nei panni dell’altro!” Ripeté come un fottuto libro stampato. “Senti tutto questo bisogno di vestire i panni altrui? Perché io no!” Soffrire faceva male ma, chi più e chi meno, si trovava alle prese con le proprie piccole battaglie. Una bella dose di egoismo, quindi, avrebbe fatto in modo di non aggiungere un carico da novanta, sulle sue spalle. Per questo si teneva alla larga dai problemi di persone di cui non gli interessava minimamente. Non si trattava di cattiveria ma di sopravvivenza. Nuda e cruda. “Ti sembrerò stronzo.” E sarebbero stati comunque problemi suoi perché di cambiare idea non se ne parlava. Vi erano, però, alcune eccezioni e portavano due nomi femminili: Grace e Freya. Quando la caposcuola fece riferimento alla cacciatrice della squadra dei leoni, Michael si irrigidì. “Proprio lei.” Di lì a poco si sarebbero visti e la giornata avrebbe preso una piega decisamente più interessante della mattina trascorsa in completa solitudine, a contemplare chissà cosa. Continuò ad ascoltare i suoi aneddoti che, questa volta, toccarono la sua amica, colei della quale si fidava con tutto sé stesso. “Tipico di Freya!” Sorrise, questa volta senza risultare inquietante, discostandosi da Daphne che, dal suo parare, sprigionava un’energia negativa non indifferente. “La tua inespressività.” Cercò di spiegarsi meglio, senza sconfinare nell’irriverenza. “Non ci conosciamo per niente. Ma voglio sperare che il tuo sguardo, in altre situazioni, regali più di questo vuoto.” O semplicemente quel che credeva di trasmettere, a lui non giungeva come poteva giungere a qualcun altro, magari più ferrato nella conoscenza di quella giovane donna.
     
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    daphne Daphne osservò Micheal, notando come anche lui, come lei, tendesse a lasciare le frasi a metà o a utilizzare allusioni vaghe. Questo creava un'atmosfera di ambiguità che nessuno dei due osava chiarire. Erano entrambi riservati, poco propensi a condividere i loro segreti più intimi con qualcuno che conoscevano da poco, di conseguenza le loro conversazioni vertevano su argomenti superficiali e banali. A volte, però, capitava che uno dei due si lasciasse sfuggire qualche informazione in più che l'altro, se attento, poteva cogliere. Daphne, cresciuta nell'ambiente ovattato dell'alta società inglese, dove le apparenze e le allusioni velate regnavano sovrane, non poté che farlo. A quanto pareva, il giovane Harris aveva avuto a che fare con diversi "insetti", o comunque con persone che lui stesso considerava tali. Un sorriso sornione si dipinse sulle labbra della serpeverde, accompagnato da un leggero cenno del capo per sottolineare il suo assenso su quanto detto. Anche lei, nella sua breve vita, ne aveva incontrati tanti di questi esemplari, uno tra i quali era proprio sua madre; una donna algida e distaccata, che regnava sulla sua famiglia con la freddezza di una regina delle formiche. Una regina che non si sporcava le mani, delegando ogni compito alle sue operaie e punendo severamente qualsiasi insubordinazione in un mondo in cui soldi e il potere erano tutto. Come un abile burattinaio, muoveva i fili delle marionette che aveva creato, controllando ogni mossa per assicurarsi che il suo volere fosse fatto. E quasi sempre ci riusciva. Era un'insetto difficile da schiacciare, protetta com'era dalla sua corte di fedeli e abile nel nascondersi, pronta ad attaccare solo quando più le conveniva. E poi c'erano insetti più semplici da calpesare o da ignorare. La maggior parte di loro si trovava in Norvegia, ma alcuni erano presenti anche ad Hogwarts. «Dove altro hai trovato questi insetti? In camera tua, per esempio?» Si voltò di tre quarti, socchiudendo gli occhi con un'aria di falsa innocenza. Con tono di voce velatamente allusivo, gli chiese di chi stesse parlando, facendo riferimento, con un sarcasmo appena percettibile, a quel soggetto di suo fratello. Per Daphne, quel tipo non meritava neanche uno sguardo da parte di una ragazza, figuriamoci l'amore. Purtroppo, era il fidanzato di Halley, una realtà che aveva accettato a malincuore per il bene della sua amica. Tuttavia, se si fossero lasciati, di certo non si sarebbe lamentata. «A me a volte è capitato.» Nel suo caso, stava parlando di Felicia, la mezzosangue figlia di suo padre. Per Daphne, non era altro che un'intrusa, un ospite indesiderato nella sua casa. Frutto dell'inganno di sua madre, Aleksander si era unito ad una babbana, disonorando il loro nobile lignaggio. Daphne avrebbe anche potuto sopportare la sua presenza, se solo Felicia non fosse stata così irritante: gelosa, fastidiosa e con la superbia di chi si crede superiore a tutti, pretendendo di dettare legge in un luogo che non le apparteneva. Non sapeva che fine avesse fatto in quei mesi; né suo padre, né Charles l'avevano mai menzionata nelle loro lettere. Da quel che ricordava, era stata promessa in sposa a una delle tante conoscenze di suo padre, anche se la sua cotta epocale per il figlio del Primo Ministro era risaputa. Peccato che Charles volesse la sua sorellastra. Chissà, forse il motivo per il suo odio spropositato nei suoi confronti era per proprio per questo. E quindi? Problemi suoi. La colpa non è di certo mia se non è ricambiata. E poi lei era innamorata di Hunter e felicemente fidanzata. «Non dai l'impressione di avere una mente semplice, Harris, tutt'altro.» Tutta la scuola era a conoscenza del fatto che le menti dei fratelli Harris non erano affatto banali. Erano entrambi individui enigmatici, che per motivi diversi suscitavano curiosità e mistero. Le venne quasi da ridere al pensiero ironico che il suo interesse per Hunter era nato proprio dal desiderio di svelare il mistero celato dietro la sua indifferenza. Era come se fosse stata attratta da un enigma irresistibile, un puzzle che bramava di completare. E quando finalmente il vaso di Pandora si era aperto, al suo interno aveva trovato un mondo inaspettato, un universo di emozioni profonde e di passioni nascoste del quale si era perdutamente innamorata. «Se fossi stato come lui non sarei stata di certo qui a parlare con te. David mi sembra un troglodita, senza offesa.» Non esitò a esternare il suo pensiero su suo fratello maggiore. Del resto, non era un mistero che non sopportasse i tipi come lui: arroganti, presuntuosi e convinti di essere superiori a tutti.Tendeva, infatti, ad ignorarli, considerandoli una inutile perdita di tempo e di energie. «Sì, ho presente.» Una risposta secca. Sapeva fin troppo bene come quel demente trattasse Halley, ne aveva avuto prova lampante durante la lezione di Alchimia. Eppure, la mora si ostinava a voler rimanere con lui, nonostante le continue umiliazioni e i maltrattamenti. Nelle ultime settimane, però, i due si erano allontanati. Chissà, forse era la volta buona. «Halley sa cosa penso a riguardo, ma la scelta è la sua e io, da amica, posso solo sostenerla.» Obbligare o imporre il suo pensiero non era da lei. Non solo sarebbe stato inutile con una Grifondoro come Halley, testarda e tenace come un mulo, ma era anche contrario ai suoi principi. Ognuno era libero di fare le proprie scelte, anche se quelle scelte le sembravano sbagliate o dolorose. E poi Halley non era una sprovveduta, e se non aveva ancora mandato al diavolo quel tipo, per quanto assurdo potesse sembrare, un motivo doveva esserci. Forse c'era un legame più profondo di quanto Daphne potesse immaginare, un sentimento che la teneva legata a lui nonostante tutto. O forse, più semplicemente, Halley non era ancora pronta per affrontare la fine di quella relazione. «A tempo debito, però, tuo fratello potrebbe avere ciò che gli spetta. Sai com'è, il karma. » Alzò i suoi occhi gelidi su di lui, un sorriso cordiale che non tradiva alcuna emozione. Michael non avrebbe potuto sapere se dietro quelle parole si celava un avvertimento, una minaccia velata o una semplice constatazione. Daphne era, infatti, abituata a colpire solo quando il momento era propizio. Pianificava ogni dettaglio con meticolosa precisione, calcolando ogni mossa e ogni possibile conseguenza, mostrandosi capace di orchestrare elaborate vendette senza lasciare tracce. Sempre se era il caso di metterle in atto, ovviamente, altrimenti nemmeno si scomodava. «Sì, ma per quanto puoi scappare?» Inclinò leggermente il capo di lato, un gesto elegante e spontaneo. Una ciocca di capelli, mossa dal vento, le era caduta davanti al viso e lei la spostò con un movimento delicato delle dita mentre fissava il suo interlocutore. «I tuoi demoni ti troveranno sempre. Per liberatene, prima o poi, devi affrontarli e ucciderli.» Da quando la conversazione aveva preso una piega così velatamente oscura? I demoni di cui Daphne parlava con tanta nonchalance, erano creature reali e pericolose. Se anche quelli di Michael possedevano la stessa natura, allora entrambi si trovavano in una morsa mortale, senza via d'uscita. Tuttavia, non aggiunse né chiese altro perché si trattava, pur sempre, di questioni personali di cui nessuno avrebbe comunque parlato.
    «Nemmeno io se è per questo. Mi basta saper leggere la situazione.»Non si era mai realmente preoccupata di immedesimarsi negli altri. In fondo, i loro sentimenti non la toccavano. Forse era il suo retaggio aristocratico a renderla così distaccata, o forse era semplicemente la sua natura, fatto sta che la sua educazione impeccabile le imponeva di mantenere un certo contegno in ogni situazione. Tuttavia, questa cordialità era solo una maschera, un abito elegante indossato per muoversi con disinvoltura nel contesto sociale per il raggiungimento dei suoi scopi. «Più che stronzo, direi disinteressato verso il prossimo.» Come lei d'altronde. «Con le dovute eccezioni ovviamente.» Nel suo caso si trattava di Hunter e Halley, per il minore degli Harris nella lista vi era inclusa Grace, sicuramente, e per il resto non ne aveva idea; non lo conosceva abbastanza a fondo per affermare con certezza se tenesse a suo fratello allo stesso modo, considerando il tono sprezzante con cui ne aveva parlato. «Sembri conoscela piuttosto bene. Siete molto amici?» Non le sembrò una domanda troppo invadente da porre. Nelle sue chiacchiereta con la sua concasata, qualche volta era capitato che il nome di Mike venisse fuori, ma l'argomento non era mai stato approfondito più di tanto. La cosa, però, non l'avrebbe di certo sorpresa visto che i due erano nella stessa squadra e nella stessa Casa. “Non ci conosciamo per niente. Ma voglio sperare che il tuo sguardo, in altre situazioni, regali più di questo vuoto.” Quelle parole la colpirono. Nessuno le aveva mai detto una cosa del genere prima. Di solito, nei suoi occhi, le persone leggevano solo freddezza, indifferenza, forse anche un pizzico di tranquillità. Ma il vuoto? Mai nessuno. Eppure, proprio in quel momento, qualcuno lo aveva pronunciato a chiare lettere. Daphne lasciò che i lineamenti del viso si distendessero, rivelando una scintilla di curiosità appena accennata. Poggiò il mento sul dorso della mano e, dopo un attimo di silenzio, parlò. «Potrei dirti lo stesso perché, anche se non ci conosciamo, i tuoi sembrano il riflesso del mio.» Azzurri. Freddi. E vuoti.

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