Mi rigiravo la sigaretta in bocca, spingendola con la lingua da un lato all’altro, poggiato a un muretto, gambe e braccia incrociate, intento ad osservare i passanti. Non ero un tipo da cappelli, ma quel giorno avevo optato per un cappello nero, il classico da baseball babbano, con una visiera utile sia a pararmi gli occhi scuri dalla luce di quel sabato mattina di aprile particolarmente soleggiato, sia per nasconderli, eventualmente, alla vista di qualcuno dal quale non avrei voluto farmi riconoscere. E quel tipo di persone, c’era da dire, stavano aumentando a dismisura; con stratagemmi, rapidità e un pizzico d’aiuto di tanto in tanto, però, al momento ero riuscito a far sì che nessuno mi riconoscesse, o beh, almeno era ciò di cui ero momentaneamente convinto. Più che per non farmi riconoscere in un secondo tempo, però, mi serviva proprio a non dar modo ai poveri sfortunati del giorno di non potere guardarmi dritto negli occhi neppure una volta, in modo da non dovermi preoccupare in futuro e, magari, ritrovare uno stupido manifesto da ricercato con il mio bel faccino stampato sopra, e sotto una dicitura del tipo:
“fate attenzione: adolescente borseggiatore per le strade di Hosgmeade”. Avrei apprezzato la fama, certo, ma non le rotture di palle. Dopotutto un povero studente senza famiglia doveva pur guadagnarsi da vivere, in qualche modo. Quindi perché non quello più facile e proficuo, nonché il più divertente?
– Jax, a ore dodici – avvertii quello che era diventato ufficialmente il mio braccio destro solito - un concasato dall’aria non proprio sveglia, ma utile per lo scopo - con una spallata che lo ridestasse dal culo di una biondina decisamente felice per l'arrivo della primavera, essendo un po’ troppo svestita per il clima scozzese che, comunque, era famoso per essere piuttosto pazzerello, benissimo in grado di passare da un sole cocente a un attacco di pioggia violento nel giro di soli dieci minuti.
– Ripigliati. Abbiamo del lavoro da fare. – picchiettai la cenere in eccesso sulla sua giacca - perché sappiamo tutti che sono un bastardo - e mi strinsi la sigaretta tra i denti, avendo già un’idea su come utilizzarla. Spinsi un vecchiaccio barbuto tra la folla e mi avvicinai dunque alla vittima designata, lanciando uno sguardo al mio compagno nel crimine, un cenno che avrebbe compreso benissimo. Jax fece infatti per confondersi fra la folla, mentre io mi avvicinavo a una donna riccamente ingioiellata che, di spalle, era intenta a guardare il contenuto di una vetrina; quando le fui accanto, sfilai la sigaretta dalle labbra e la avvicinai cautamente alla punta dei suoi capelli, sui quali, in pochi istanti, si accese una fiammella che prese a mangiucchiarseli centimetro per centimetro; io mi ero già prontamente allontanato, mentre la stronza neppure se ne accorgeva. Alla sigaretta avevo dato l’ultimo tiro, prima di lasciarla cadere al suolo e ucciderla prima del tempo con una schiacciata di tallone.
“Signora…signora!…i suoi capelli! un signore che stava venendo nella sua direzione la avvertì, e subito la donna prese ad allarmarsi… talmente tanto che, esattamente come avevo previsto, lasciò andare la presa sul passeggino. Ghignai increspando una guancia, soddisfatto di quella prima fase; infretta, sfilai la bacchetta e, parandola in parte con la giacca di pelle, la agitai mentre con un sussurro pronunciavo l’incantesimo che avrebbe fatto sì che la carrozzina prendesse a camminare da sola in mezzo alla folla, perfettamente indisturbata visto il caos di persone che tentavano di aiutare la donna a spegnere l’incendio fra i suoi capelli in qualche modo che volesse probabilmente evitare di infradiciarla nel bel mezzo della stradina acciottolata ricca di gente. Quando qualcuno arrivò a farle notare del passeggino, ormai giunto in direzione di un carro di pesanti merci che stava passando di lì, io lo stavo già prontamente “salvando” da quell’orrendo destino: che caritatevole, non è vero? Come farebbe il mondo senza di me?
“IL MIO BAMBINO! IL MIO BAMBINO!!!” la donna urlava, le mani al petto, i capelli ormai spenti ma decisamente più corti e bruciati, decisamente…
orridi, che sembrarono quasi prendere un aspetto più elettrizzato a seguito di due spaventi non calcolati nel giro di pochissimi minuti.
“Ragazzo mio, sei un angelo! Così pronto e gentile! Come posso ripagarti??” fece per prendere il borsello dalla sua tasca, ma io le fermai il braccio prontamente,
– Non si preoccupi, signora mia, è stato un dovere! Che spavento deve essersi preso anche lui. Ciao, piccolino! – diedi un buffetto al bimbo nella carrozzina, sempre attento a non farmi vedere bene in volto dalla donna, che mi sorrise, e allora alzai una mano per congedarla:
– Buona giornata a voi! Bei capelli, a proposito! – mi misi le mani in tasca affrettando subito il passo verso il punto di partenza - il solito muretto di appostamento - mentre la donna fece dapprima per compiacersi, ma finendo per passarsi una mano fra i capelli con sguardo perso e rammaricato, realizzando certamente che la stessi prendendo per il culo.
E non come probabilmente avrebbe voluto. Diedi una sonora pacca all’altro serpeverde, ora di spalle, intento a far finta di niente, gli occhi puntati nella direzione opposta:
– Allora? Quanto abbiamo fatto? – gli domandai, scippandogli il sacchetto tintinnante dalle mani e facendomi cadere qualche moneta sul palmo,
“La tipa girava con una cinquantina di galeoni in tasca… che idiota, questa gente ricca” gli lanciai un’occhiata glaciale, sentendomi colpito, ma decisi di non farci caso, ma anzi approfittarmene,
– Che dire, Jax… già sono la mente di tutto, adesso offendi anche la mente… direi che passiamo dal settanta percento di ricavato al novanta per me… ecco ciò che ti rimane – gli feci cadere giusto un paio di galeoni sui palmi aperti, sui quali saltellarono nel suo tentativo di non lasciarli cadere, richiusi il sacchetto e misi in tasca il bottino.
– Non guardarmi così, amico. La prossima volta imparerai ad esprimerti. Andiamo. Ho voglia di un cazzo di whisky incendiario. – piegai la testa di lato, invitandolo a seguirmi, cosa che fece, nonostante lo sguardo mogio. Prendemmo a chiacchierare per qualche passo, però, che lo bloccai per la camicia.
– Cazzo, è quell’auror… e mi sta guardando… cazzo, cazzo! – non feci neanche per tirarmelo via che quello mi sgusciò dalle dita da solo e, voltandomi per guardarmi intorno confusamente, chiedendomi dove fosse finito così rapidamente, l’auror mi raggiunse con falcate degne di un tirannosauro.
«Tu sei Harry Barnes, giusto?» sbarrai gli occhi, deglutendo per cercare di trattenere il panico crescente: mi aveva semplicemente riconosciuto dopo la festa di non-san valentino, o qualcuno aveva veramente appeso dei manifesti con la mia faccia?
– Credo che si stia sbagl- – non arrivai a finire di dirlo che, con poco, mi assicurò che ogni tentativo di fuga, a quel punto, sarebbe stato totalmente inutile:
«Mi ha mandato qui la tua professoressa, dice che hai bisogno di un po' di terapia.» corrugai la fronte, offeso e sconcertato:
– Io? Terapia? Ma quando mai!… e poi lei non sarebbe un auror?? – lo fissai con aria interrogativa, incerto su come prendere quelle parole.
Ma la professoressa Lovecraft, i cazzi suoi, no??!