Non sapevo che cazzo significasse tutto quello. Le dinamiche mi erano ancora confuse: come c’ero finito, esattamente, dentro quella vasca? E perché, soprattutto? Non potetti che pensare a una qualche forma di molestia da parte della bionda: avrebbe avuto dell’incredibile, ma come altro si poteva spiegare quella situazione così bizzarra? Le sue labbra erano incollate alle mie, dopotutto, che mi trovavo in uno stato decisamente non cosciente. Se voleva limonarmi poteva farlo senza mandarmi k.o. in chissà che metodo assurdo…
…
no, ora ricordavo. Il metodo era stato farmi rigettare quella che avrei detto fosse pressapoco la stessa quantità d’acqua di cui era costituito il lago nero da
ogni cazzo di poro disponibile nel mio corpo, o quasi. Il mio culo, per capirci, era salvo. Ma non la mia vita, a quanto pareva: con uno shock evidente nello sguardo, realizzai come se si trattasse di una favoletta che dovevo essere andato di molto vicino alla morte.
Quella stronza mi odiava a tal punto? Eppure, in quella maledettissima tenda, mi aveva assicurato di no: ma la gente mente sempre, soprattutto quando il suo piano è farti del male. E allora sapete cosa?
Avrebbe dovuto rimanersene per i cazzacci suoi, senza disturbare la quiete che in quel periodo stavo cercando così disperatamente di costruirmi intorno, come una bolla di solitudine e silenzio che mi avrebbe permesso di sfogare in pace tutti i miei dispiaceri, tutte le frustrazioni, e cercare in qualche modo di ricaricarmi, in attesa di quando lo sarei stato abbastanza da tornare a mordere il mondo con ferocia, come d’altronde avevo sempre fatto. E dopo mesi, finalmente, forse, ci stavo pian piano riuscendo: un passettino alla volta, tornavo ad essere me stesso, lo stesso testa di cazzo che tutti conoscevano, solo più aggressivo di prima, per cercare di ristabilire gli equilibri che erano sempre stati:
se ti guardo male, devi sposarti; se ti dico che mi hai rotto le palle, devi spaventarti; se superi il limite, devi correre, lontano, perché giurando su Merlino avrei preso in mano uno per uno il colletto di tutti quei figli di puttana che avevano osato mancarmi di rispetto e li avrei fatti pentire di ogni singola parola pronunciata contro il nome mio o della mia famiglia: solo così avrei riottenuto il mio posto fra le mura di casa, ma sapevo che non sarebbe stato così semplice: anche messi a posto uno per uno, non sarebbe bastato a far togliere di bocca alle male lingue vicine a mio padre ciò che avevo fatto, ciò che secondo loro ero, e di certo mio padre voleva un gesto più plateale, qualcosa di così grande da riuscire a farlo ricredere sul mio conto, almeno quel tanto che bastava per rientrare a far parte davvero della famiglia. Perché, per ora, ero un figlio di nessuno.E dopo tanto sforzo, morire non mi ci voleva proprio: sarebbe stata sicuramente la degna sbeffeggiata finale,
qualcosa che non mi meritavo. O forse sì? Eppure era così folle: come poteva,
proprio lei, farmi una cosa simile? Soprattutto dopo tutto quel finto supporto: cosa l’era passato in testa? Dopotutto le chiedevo soltanto un chiarimento, uno straccio di motivazione, e l’avrei lasciata in pace per sempre.
Mi chiedevo quale motivazione ci potesse essere a tenerla tanto distante, quale dettaglio avesse bisogno di rimanere tanto taciuto:
quali segreti poteva mai avere, a parte il fatto che si drogasse di quella strana bevanda dell’allegria? Non ce la vedevo neppure, ad averne. Era così perfettina, rigorosa… una che non si sarebbe messa nei guai, o non ne avrebbe creati. Insomma, cosa poteva esserci di così pazzesco che ancora non sapessi sul suo conto? Perché, insomma, a quel punto dubitavo sinceramente che fosse solamente una questione di “non voler vedermi”. Il suo nervosismo così palpabile in quel periodo, quell’umore così bizzarro e sfuggente, non era di certo dovuto solo a me: dopotutto, nonostante mi seccasse sempre ammettere un concetto simile, non ero poi così importante nella sua vita, almeno quanto lei non lo fosse per me.
E allora perché diamine eravamo arrivati a… quello? Non lo so, ma mi scaturì una rabbia immane: come ogni volta, la mia visuale iniziò ad annebbiarsi un poco alla volta, mentre la furia mi schizzava dritta al cervello, le tempie della fronte si tendevano vistosamente e il volto si arrossava:
mi sarebbe bastata, per l’ennesima volta, soltanto una motivazione a quel gesto così stupido e sconsiderato, e poi l’avrei affogata una volta per tutte, fottuta Morgana se l’avrei fatto. «Non volevo», continuò a blaterare, ma più lo faceva e più avevo la voglia irrefrenabile di afferrarla per i capelli e sbatterle ferocemente la nuca contro il bordo della vasca, e lasciarla stecchita per sempre. Ce la presi anche, per i capelli: il passo, a quel punto, era estremamente breve, ma gli lasciai andare la biondissima ciocca all’attaccatura del collo nel realizzare qualcosa che, in effetti, mi lasciava ancora più di stucco:
– Come diamine ci sei riuscita? – ridussi gli occhi a due fessure, con aria investigativa, perché cazzo se quella non me la raccontava giusta.
– Era magia oscura? – tentai, incerto. Che io sapessi, non esisteva ancora una tipo di magia oscura che permettesse ciò… purtroppo. Esisteva, infatti, la possibilità avanzata di riuscire, con moltissima pratica, ad effettuare un qualunque incantesimo senza l’uso della parola (non-verbali, si chiamavano),
ma non c’era assolutamente alcun modo di potere eseguirli senza l’aiuto della bacchetta.Attesi, senza smettere di starle col fiato
letteralmente sul collo, come una specie di mastino ancora in procinto di attaccare, finché quella - forse vedendosi giunta alle strette - non decise finalmente di spiccicare parola esprimendo qualcosa di utile.
«Sì, ti ho quasi ucciso e no, non sono una strega normale, o meglio, una parte di me non lo è…» strinsi gli occhi ancora di più, in attesa di una spiegazione più approfondita, ma sembrava faticare ad arrivare: la ragazza era incerta, incespicava a tratti sulle sue stesse parole, come se non sapesse bene cosa poter dire o meno, come dirlo, o fin dove potesse spingersi.
– L’ho notato. – che stava per uccidermi, sì, su quel punto eravamo già tutti consci e d’accordo.
– Che cazzo vuol dire che “fai male alle persone”? Che cos’è questa cosa che hai fatto? Porca puttana Skylee, parla! – stringevo le mani sul bordo della vasca per contenere la rabbia che ancora non accennava a scemare del tutto ma, al contrario, veniva riaccesa a tratti da quel suo discorso a metà, come se dicesse tutto ma, allo stesso tempo, assolutamente niente.
– COSA??? Cosa dovevi fermare??! – e nulla: scoppiò in lacrime. Un pianto disperato.
Ma Merlino santo.Attesi immobile, a mollo, come una statua corrucciata, che la smettesse, ma non accennava a farlo.
«Non volevo farti ciò che ho fatto, ti prego di credermi» la bionda si premette le mani sul viso, e io alzai lo sguardo al cielo, trascinandolo altrove, ovunque ma non su quel corpicino di donna piagnucolante davanti a me. Mi metteva profondamente a disagio, la gente che piangeva, soprattutto le donne.
– Perché cazzo devi piangere sempre, adesso, si può sapere? – le chiesi bruscamente, senza però cercare una reale risposta:
donne. Il loro modo di comportarsi non aveva senso per almeno la metà del tempo.
Nell’altra metà ti rompevano soltanto le palle a oltranza.E d’un tratto, la vidi tremare. Sospirai. Scossi la testa.
Che situazione del cazzo. Mi riavvicinai a lei, nella vasca, ancora singhiozzante, e la tirai contro il mio petto, o meglio, contro la camicia fradicia: la strinsi forte, un po’ come quando tenti di soffocare tuo fratello col cuscino in attesa che muoia.
No? Non ci avete mai provato? Dovreste… nel peggiore dei casi, è comunque divertente.
La stringevo a me in maniera rigida, impostata, senza calore, come a voler contenere quella pioggia di sentimenti eccessivi, fuori luogo.
– Smettila. Smettila di piangere, adesso… Hai rotto il cazzo. – aggiunsi, sbuffando aria nei suoi capelli, il mento sulla sua testa, incastrata contro il mio collo.
Doveva contenersi, cazzo.Lasciai passare qualche minuto, fermi in quella posizione, in attesa che i singhiozzi si arrestassero.
– Ho capito. Ma sappi che se rifai una cosa simile, io ti ammazzo. Senza rimorsi. Intesi? – a quel punto stacco il mio corpo dal suo, allontanandola abbastanza affinché potessi portarle i capelli all’indietro e renderle chiara la visuale della mia espressione seria quanto impassibile:
– Skylee, INTESI? – cercai nel suo sguardo un accenno di comprensione, o nel suo capo un segno di assenso.
– Guarda che se non parli chiaro una volta per tutte, io me ne vado. – la minacciai,
– Me ne vado e smetto per sempre di rivolgerti la parola, dopo questa. Tanto è quello che vuoi, no? – mi succhiai un labbro in dentro, squadrandola,
– È l’ultima chance che ti dò. L’ultima. – se te ne frega qualcosa. In caso contrario, avrei di certo vissuto meglio.