Che cazzo stavo facendo? Non ne avevo la più pallida idea.
Un momento ero lì, tanto occupato a crogiolarmi nel mio ormai perenne stato di adolescente depresso senza averne neanche, in tutta franchezza, la minima voglia di uscirne; volevo soltanto essere lasciato in pace,
era così difficile? Per il resto, ultimamente avevo sempre un umore talmente pesto da non lasciare aperto il minimo spiraglio di un passaggio a una qualsivoglia parvenza di allegria da parte del prossimo: nulla attecchiva, ma serviva soltanto a farmi incazzare maggiormente, facendo proliferare in me un insano pensiero omicida; lo stesso che mi coglieva durante le notti, ma che sembrava farsi ormai sempre più vivido,
reale, palpabile, da quando la mia vita aveva preso una piega così bizzarra e insopportabile… da quando non era più
la mia. E allora avrei solo voluto distruggere
tutto: le cose, le persone, il mondo. Non ne potevo più di un cazzo di niente. Se quello era il mio nuovo ruolo in quel pianeta, non valeva neanche la pena che esistesse. Era una fortuna che non ci fosse l’esistenza di un qualche enorme bottone rosso con quel potere… altrimenti lo avrei premuto da un pezzo, senza il minimo rimorso, neppure nei confronti di me stesso. Perché, nonostante avessi fatto innumerevoli cose brutte nella mia ancora giovanissima vita, mai ero arrivato a un punto tale da odiarmi tanto. Da disprezzare la mia immagine allo specchio, che solitamente, per me, era sempre stata una sorta di atto venerativo; mai avevo desiderato così schifosamente di sparire, di implodere, di farmi del male proprio come avevo provato a fare in quel sudicio e mal illuminato bagno di un pub schifosamente kitsch di Hosgmeade: tutt’ora non avrei saputo dire, sinceramente, che cosa sarebbe successo se non fosse arrivata la Métis nel bel mezzo di quel faccia a faccia spietato con me stesso. Probabilmente avrei continuato finché non ne avessi avuto abbastanza e, in quel momento, vedendomi appunto dall’esterno e punendomi come se fossi la feccia dell’umanità intera, so che la rabbia avrebbe potuto portarmi fino infondo.
La Métis, però, me lo aveva impedito.
Quella bionda… doveva sempre rompere il cazzo. Mettersi in mezzo. Farsi
sentire. E, cazzo, non ti lasciava in pace finché non otteneva ciò che voleva, a prescindere che quello fossero i miei buoni voti a scuola per fare la parte della “caposcuola perfetta”, tentare di mettermi a posto od ottenere semplicemente un briciolo di attenzione.
E,
cazzo, era tutta la giornata che tentava in tutti in modi di fare proprio quello.
Fosse per me, non sarebbe riuscita a spillarmi assolutamente nulla dalle labbra: non ero in vena di interessarmi a me stesso, figuriamoci agli altri. In più, era già stata una giornata abbastanza faticosa senza che ci mettesse il carico da novanta nell’insistere nel propormi la sua presenza fastidiosa finché, probabilmente, non avrei ceduto lanciandole un bombarda in piena faccia, e, successivamente, mettendosi anche a rimbeccare: giuro, ero a
tanto così da quel cazzo di bombarda.
Ma poi si era rabbuiata. Si era rattristata. Aveva fatto la parte del cucciolo ferito. E, cazzo, mi ero reso conto che in quello stato le reggessi ancor di meno. Non credevo neppure che fosse possibile. Non l’avevo mai vista così e, detta sinceramente, incuriosì una piccola parte di me. La addolcì, forse, complice anche il mio soddisfacente sfogo di quegli ultimi minuti: una volta più leggero, era stato più semplice avere uno scambio quantomeno civile. Tuttavia, mi sorprese non poco, una volta che mi ritrovai solo, la realizzazione di quanto quella pulce bionda fosse riuscita a fare: aveva tirato fuori il mio lato gioco, almeno per un po’… ok,
a tratti alterni, ma c’era riuscita… e non me ne capacitavo. Mi sentii dunque improvvisamente vuoto, e in un certo senso spaesato, quando la sua presenza scomparve così com’era arrivata, come una colombella che se ne vola via con la leggerezza in mezzo al becco.
Leggerezza: qualcosa che mi era mancata parecchio, e me ne rendevo conto soltanto ora. Tuttavia, non l’avrei seguita: la serotonina se n’era appena andata con lei, lo sapevo, e non mi restava che mangiare in pace.
Questo finché non bevvi quel misterioso liquido, trasparente quanto inodore, che sembrò ridarmi nuova vita per la prima volta dopo settimane.
E così la rincorsi. Lo feci per davvero. E me la misi in groppa, e la scaraventai in acqua, e diedi inizio a un gioco di cui – ora lo realizzavo – potevo ritenermi la maledetta miccia.
Cosa stavo provando? Difficile da dire. Se me lo chiedeste, non ve lo saprei spiegare. Però una cosa la sapevo: dopo quell’intruglio, mi sentivo
bene. Davvero bene. E, poco prima, in tenda, ero stato bene anche lì.
Giusto un po’. Non fatevi strane idee. Però, adesso, la mia mente e il mio corpo erano uniti in un solo pensiero, e un’unica intenzione:
sfogarsi sulla Métis. Inondarla di tutta quella leggerezza che sentivo, e usarla spudoratamente per sentirmi vivo,
almeno per un po’. Non sapevo quanto sarebbe potuto durare l’effetto di qualsiasi cosa fosse, e proprio per questo pensavo solo a godermi ogni secondo…ma, ecco… forse un po’ troppo.
La pioggierella si dibatteva musicalmente contro la superficie scura del mare, illuminato solo dal gentile tocco della luna che, a piccoli tocchi, sembra sfiorare le acque come gentili pennellate bianche all’orizzonte. Sembrava una vera e propria danza spensierata, quella che ci stava circondando e che accarezzava i nostri corpi, nel mentre intenti a “lottare” nell’acqua fresca della sera: un toccasana a contatto con la nostra pelle nuda, messa a così dura prova durante quella giornata così anormalmente afosa; almeno per un inglese come me. Quasi non mi resi conto del tocco della sua gamba a contatto con zone decisamente
off limits, ma percepii il mio corpo reagire di conseguenza, in maniera totalmente autonoma. Un piccolo brivido, percepito da un lieve calore che mi pervase, solo per qualche istante: il giusto tempo per afferrarla per bene e, portandomela faccia a faccia, chiarire che avrebbe dovuto darsi una calmata. No,
entrambi dovevamo: tuttavia, la nostra posizione pareva molto simile a quella di due bambini che, rimproverati dai genitori (in questo caso la mia stessa presa di posizione), non avessero la minima voglia di porre fine al loro gioco. Fu, infatti, di malavoglia che mi costrinsi a distendermela fra le braccia per trascinarla fuori dall’acqua, “in salvo” sulla riva… o forse
no.
Il mio sorriso, si vedeva, era ancora smosso da un certo divertimento sporco d’infantilità, ora atto a sovrastarla col mio corpo, come a volerle mostrarle la mia supremazia e, a me stesso, che non avessi poi così tutta quell’intenzione di mollare l’osso.
Non così presto, almeno.
Ma c’era un pericolo: lei. Il suo sguardo. Il mio. Il suo sguardo nel mio. Il modo in cui mi stava fissando. Non doveva fissarmi così. Era…
dannatamente sexy.
Mi indurii. Non potetti evitarlo. Sono cose fisiologiche, e io, depresso com’ero stato, non avevo un’erezione da quella che mi pareva un’eternità. E sapete questo cosa significa, non è vero?
Che ero gonfio come un uovo in procinto di schiudersi. Porca merda.
Tentai di sollevare il bacino tanto quanto bastava affinché non sfiorasse più la sua coscia calda, e bagnata e…
Merlino santo… da quando la pioggia era diventata un elemento così sexy? Ciò che impediva alla corvonero di venire inondata dall’acqua era il mio corpo fisso sopra di lei che, involontariamente, le faceva da scudo; ciò accentuava, però, il modo in cui singole gocce le cadessero addosso, scivolando lungo le sue forme morbide e pallide come un percorso pericoloso, solleticando lo spazio in mezzo al seno, fin dentro al suo costume.
Ero certo che a quel punto mi sarebbe arrivato un pugno in faccia da un momento all’altro, o almeno uno schiaffetto, una serie di improperi o… beh, una qualsiasi delle sue reazioni precipitose e aggressive. Non era una novità che le subissi, proprio per questo avevo smesso di provarci, nel toccarla, in qualsiasi modo. Ormai non lo trovavo più divertente, dunque non aveva più senso farlo.
Eppure… in quel momento… sentivo che avrei potuto ridurla in brandelli. Come un cane rabbioso. Probabilmente era a causa della mia astinenza semi-involontaria giunta ormai al suo limite; ma anche il fatto che desiderassi la Métis da così tanto tempo faceva sicuramente il suo.
Ma il pugno non arrivò, e neanche lo schiaffo, né improperi di alcun tipo: si limitava a continuare a fissare i suoi enormi occhi nei miei, stranamente immobilizzata, mettendomi sempre più in difficoltà.
Avrei dovuto alzarmi di lì e rimuovermi dalla situazione, lo sapevo: non avrei saputo reprimere i miei istinti ancora a lungo. Il suo sguardo così perso nel mio, però, stava suscitando in me un’effetto molto simile a ciò che avevo provato con le sirene, quel pomeriggio: mi chiamavano,
lo vedevo, conoscevo bene quel tipo di sguardo. Una certezza, in quell’istante, colpì il cervello con la stessa forza elettrica di un fulmine:
lei mi voleva, almeno quanto la volevo io.Le mie mani erano ancora affondate sulla sabbia umida sopra la sua testa, quando il mio corpo decise di muoversi in totale autonomia così da portare un pollice contro suo labbro inferiore, premendolo delicatamente e trascinandolo leggermente verso il basso, in modo da scoprirne l’interno: era così soffice,
succoso, che glielo avrei strappato a morsi.
Farla mia, in quel momento, sarebbe stato estremamente semplice, talmente tanto che sarebbe stato un peccato non farlo: sarebbe bastato spostarle leggermente la parte inferiore del body da spiaggia, facendo indugiare le dita a sud, e farmi scivolare così dentro di lei. Non mi importava un cazzo del fatto che avrebbero potuto vederci, in così bella vista, anzi,
tanto meglio: avrei messo un volta per tutte in chiaro la mia
unica e indiscriminante posizione sul sesso, e sicuramente si sarebbe iniziato a parlare di quello, voci nuove che avrebbero messo a tacere le vecchie nel giro di pochissimo.
E allora c’era da chiedersi:
c’era una sola ragione per la quale non avrei dovuto farlo?Non me ne veniva in mente neanche una.
Delicatamente, le feci scivolare una spallina fino a cingerle il braccio, in modo da poter assaporare liberamente un punto preciso della clavicola; ma feci giusto per premere le labbra contro la sua pelle candida, che la bionda si ritrasse come punta da un insetto e, proprio come se avesse letto il mio pensiero iniziale (
“scacciami, Métis”), approfittò del fatto che, ormai, mi tenessi su soltanto con una mano, e mi fece cadere su un fianco.
– Skylee… torna qua! – alzai un braccio nel cercare di fermarla, di riacchiapparla, ma fu tutto inutile: filò via come una fottuta antilope.
Mi tirai a sedere e poi in piedi, intenzionato a seguirla:
perché cazzo faceva così, adesso? So che lo voleva quanto me. Era chiaro come il sole…
La vidi chiudersi dentro a una tenda, a distanza relativamente breve, ma quando arrivai a lei la tenda era già sigillata.
– Skylee? – tentai inutilmente.
– Skylee, apri questa tenda. – insistetti, ma ciò che seguì fu unicamente il silenzio.
Mi sedetti stancamente con le schiena contro l’apertura della tenda, un ginocchio piegato, mentre con una mano mi afferravo i capelli fradici e li scuotevo come sfogo.
Avevo agito in maniera così sconsiderata? Forse sì. Lei era fidanzata, dopotutto –
nonostante tutto –, e faceva tutti quei discorsi sulla stupida lealtà… sì, quello, forse, era un dettaglio che non avevo considerato. Eppure, continuava a non importarmene un fico secco: l’essenziale, per me, era soltanto uno…
– Non credevo di fare nulla che tu non volessi – soffiai stancamente, facendo attenzione a parlare a voce abbastanza alta affinché si sentisse oltre il suono, ancora ticchettante, della pioggia; mi pareva, però, di parlare con un fantasma, e capii presto che fosse tutto inutile.
– Fanculo. – imprecai a bassa voce contro il nulla, dopo essermi morso l’interno della guancia sinistra.
Così mi alzai, scossi il capo per l’ultima volta in direzione della tenda e me ne andai, certo che qualcosa, da quel momento, sarebbe cambiato.